di Alessia de Antoniis
Sulla facciata bianca del palazzo reale campeggia, come un graffio, la scritta nera: The king is dead. Nessun proclama altisonante, nessuna cerimonia funebre. Solo una constatazione di fatto sbattuta in faccia allo spettatore. Una sorta di breaking news. Così si apre Il medico dei maiali di Davide Sacco (produzione Ente Teatro Cronaca LVF-Teatro Manini di Narni), ed è subito chiaro che ci troviamo in un altrove che somiglia fin troppo al nostro presente: grottesco, surreale, irresistibilmente logico nel suo non senso.
“The King is dead”, ma nessun cadavere in vista. Eppure tutto ruota attorno a quella morte, simbolica e definitiva. La pièce si apre su questo epitaffio per un potere decapitato, mentre il pubblico viene catapultato in uno spazio ambiguo, a metà tra tragedia e farsa, tra regno e porcile.
La trama: un veterinario specializzato in suini (Luca Bizzarri) viene convocato per eseguire l’autopsia sul re d’Inghilterra, morto in circostanze sospette. A ridosso dell’annuncio ufficiale, irrompe il principe ereditario Eddy (Francesco Montanari), ubriaco, vestito da ufficiale nazista e del tutto incapace di sostenere il peso della corona. Ma nulla è come sembra e la pièce si sviluppa come un gioco al massacro, in cui ognuno dei personaggi – Alfred il veterinario, Eddy il principe, i consiglieri (David Sebasti e Mauro Marino) – muove verso il proprio disvelamento; o la propria dannazione.
Il testo, terzo atto della trilogia La ballata degli uomini bestia, mostra una scrittura che non ha paura di osare: sferzante, metaforica, filosofica, piena di trappole linguistiche e slittamenti di senso. Sacco scrive con la lama ben affilata, che sa affondare nel cuore della materia politica e umana. L’uso del grottesco è calibrato, l’allegoria animale non è mai pretestuosa. Davide Sacco ne Il medico dei maiali, trasfigura il presente in allegoria feroce; lo svela mentre, tra le risate del pubblico, lo fa putrefare, tremare. Fin dall’inizio, lo spettacolo scivola con leggerezza dentro una dimensione onirica e comica, in cui la risata è un grimaldello per forzare le porte della coscienza. Il meccanismo è perfetto. Il testo di Sacco è una macchina ben oliata: alterna dialoghi dal ritmo serrato a monologhi pieni di doppifondi filosofici, mentre guida lo spettatore con mano ferma in un viaggio che è tanto cerebrale quanto visceralmente emotivo.
Al centro della scena, due interpreti che si inseguono, si specchiano e si ribaltano l’un l’altro: Luca Bizzarri e Francesco Montanari, regalano una prova attoriale solida: Bizzarri, nel ruolo di Alfred, domina la prima parte con una performance misurata, ironica, ambigua. È affabulatore, è cinico, è tragico; impeccabile nella gestione dei tempi comici. Il ruolo gli calza addosso come una seconda pelle: non lo interpreta, lo incarna. È lui quel medico dei maiali, figura tragicamente comica, lucidamente folle, profeta disarmato nel tempio della stupidità.
Montanari è meravigliosamente stupido. Sembra un buffone da cartone animato. Parte in sordina, volutamente ridicolo: ma è una trappola. A poco a poco cresce, prende corpo, prende parola, prende potere. E, quando si prende la scena, nella seconda metà, è un’esplosione: animale, sì, ma da palcoscenico. Conquista e sovverte. Quando la maschera dell’imbecille cade, resta un animale feroce. La sua metamorfosi è compiuta e lo spettacolo diventa davvero dramma. Mentre Montanari dimostra ancora una volta di essere un attore con una notevole potenza teatrale.
Buono anche il lavoro degli altri interpreti: David Sebasti e Mauro Marino. Tuttavia, mentre Marino, nel ruolo del cortigiano insicuro, a metà tra yes-man e codardo, tiene il ritmo, Sebasti risulta a tratti impostato, anacronistico nei toni, meno integrato nella drammaturgia contemporanea della messa in scena.
La narrazione scorre e fa il suo ingresso Imagine di John Lennon. L’inno infranto di un mondo in pace si insinua in scena con una dolcezza che diventa pugno. Lennon accompagna lo spettatore nel cuore dell’abisso: Nothing to kill or die for, mentre fuori dalla finzione il mondo brucia. Sacco non usa la musica come colonna sonora, ma come controcanto etico. E quando Montanari esclama: “Oggi è il giorno in cui un drogato ubriacone diventa re”, capiamo che non siamo più in una favola.
Il teatro, qui, è politico, ma non didascalico. È crudo, bestiale, a tratti irritante. Sacco ci fa ridere per farci abbassare le difese. Ci fa sognare. Poi ci sbatte in faccia la realtà. E non ci lascia scampo. Frase dopo frase, battuta dopo battuta, costruisce un discorso filosofico su potere e coscienza, su ignoranza e responsabilità, su quanto possa essere pericoloso “mettere in moto il cervello delle persone”. E se un uomo stupido inizia a riflettere, forse scoprirà che la stupidità non è destino. Forse.
Il finale è un rovesciamento. Montanari, che sembrava comprimario comico, prende il centro. Ricorda a tutti che il teatro è ancora suo. Mentre il nostro disgusto aumenta. Mentre un brusco risveglio ti fa ancora una volta immedesimare nell’intelligente, colto e sagace Alfred. Mentre… non ti senti più né intelligente, né sagace.
Sacco firma una pièce lucida e spietata. Politica in un senso ormai dimenticato. Con una drammaturgia che rifiuta l’autocompiacimento e mira dritta al cuore e alla mente dello spettatore. Il medico dei maiali è un testo ambizioso che affronta il potere da dentro; che non si rifugia nel moralismo né nell’ovvietà. Un sapiente equilibrio tra visione registica e parola. Non è una distopia, non è solo un’allegoria. È un pezzo di realtà portato in scena con una maschera grottesca. Uno specchio rotto che ci riflette interi. È la dimostrazione che un uomo stupido, se costretto a pensare, può diventare pericoloso. Che il potere non è per tutti; che prescinde dal merito e non ha bisogno di intelligenza: ha solo bisogno di consenso.
La sua regia ha un ritmo incalzante, alterna scene serrate a momenti di sospensione. L’uso della musica è sapiente: Lascia ch’io pianga di Händel, alternato a contaminazioni metal, apre con un effetto spaesante. Imagine di Lennon rompe l’idillio con il pubblico, che smette di ridere.
E noi, che continuiamo a essere “dreamer” che immaginano No hell below us. Above us only sky. No countries. Nothing to kill or die for and no religion too. Imagine all the people living life in peace…