Libia, tra caos e bugie: Cadalanu racconta come interessi e menzogne hanno distrutto uno Stato ricco di petrolio
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Libia, tra caos e bugie: Cadalanu racconta come interessi e menzogne hanno distrutto uno Stato ricco di petrolio

Giampaolo Cadalanu, reporter esperto di crisi internazionali, analizza nel libro *Sotto la sabbia* le bugie occidentali dietro il disastro libico post-Gheddafi.

Libia, tra caos e bugie: Cadalanu racconta come interessi e menzogne hanno distrutto uno Stato ricco di petrolio
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22 Aprile 2025 - 23.07


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di Antonio Salvati

Pochi ricordano il discorso che Barack Obama tenne il 4 giugno 2009 all’Università del Cairo, in cui il presidente americano, all’indomani dell’intervento in Iraq, auspicava “un nuovo inizio” nel rapporto con i Paesi musulmani. Si trattava dell’archiviazione della “teoria dello scontro di civiltà”, una rottura con l’era Bush, che si tradusse poi in un sostegno ai movimenti della cosiddetta “Primavera araba” che esplose con il clamoroso gesto di protesta di Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante tunisino che il 17 dicembre 2010 si diede fuoco nella cittadina di Sidi Bouzid per protestare contro le continue vessazioni da parte delle forze locali di polizia. In maniera del tutto inaspettata, il suo sacrificio, diede inizio a una ribellione aperta contro il governo autoritario di Zine al Abidine Ben Ali, che guidava il Paese dal 1987, costringendo il presidente alla fuga.

Poi la “rivoluzione della dignità” – come la chiamarono i tunisini – si allargò ad altri Paesi arabi, grazie anche a un inedito e straordinario ruolo dei social network, che si affiancarono alle tradizionali comunicazioni legate alla preghiera nelle moschee. L’ondata di proteste che coinvolse il mondo arabo nel 2011 non ha precedenti nella storia della regione. E fa decisamente impressione ricordare quanto si discusse allora, soprattutto sui media e nell’opinione pubblica occidentale, sul ruolo svolto nella diffusione delle rivolte dall’utilizzo da parte dei manifestanti dei Social. Il mondo islamico fu investito da rivolgimenti inaspettati, e non mancarono ovviamente coloro che ne approfittarono per cercare vantaggi strategici e tutelare i propri interessi economici. In Egitto ci fu la caduta – dopo trent’anni di potere – dell’autocrate Hosni Mubarak che, dopo un tentativo di repressione delle manifestazioni concentrate a piazza Tahrir del Cairo, fu costretto a lasciare il governo.

Le elezioni portarono alla presidenza il candidato dei Fratelli musulmani, Mohamed Morsi. Ma in breve tempo, attraverso un colpo di Stato militare, il potere tornò a un despota, cioè l’ex vicepremier e ministro della Difesa Abdel Fattah al Sisi.

In Libia apparve subito evidente il ruolo giocato da altri protagonisti e dai loro interessi, malgrado i disordini esplosi a Bengasi, la città rivale del clan di Muammar al Gheddafi, che portarono alla guerra civile e all’intervento occidentale, per finire con la deposizione e la morte del colonnello, il leader della rivoluzione del 1969. Eppure, la Libia sembrava il contesto più improbabile per una rivolta: i conti economici del Paese erano prosperi, con un reddito pro capite altissimo, grazie a un sottosuolo ricco di petrolio e di gas. Ma ancora una volta quel patrimonio nascosto doveva diventare una maledizione.  A quattordici anni dalla fine del regime di Gheddafi, il Paese è ancora afflitto da forte instabilità. Resta un “petro-Stato” e l’ipotesi di una nuova guerra civile imminente non è scongiurata. In Libia e, soprattutto, in Siria abbiamo assistito al disfacimento degli stati per via delle crisi politiche violente negli ultimi 30 anni. Nessuno più, nemmeno gli stati più potenti, nemmeno gli Stati Uniti, è riuscito a vincere davvero una guerra negli ultimi 30 anni. E la conseguenza sono guerre infinite, e la conseguenza di questa conseguenza è il disfacimento dello stato.

Sulla cattura e l’uccisione nel 2011 di Muammar al Gheddafi, sulla guerra civile che ne è seguita, sulla partecipazione delle grandi potenze – dalla Russia alla Turchia, dagli USA ai Paesi del Golfo – per impossessarsi del tesoro del sottosuolo libico, sul coinvolgimento del nostro Paese, Giampaolo Cadalanu ha scritto un interessante volume Sotto la sabbia. La Libia, il petrolio, l’Italia (Laterza, Roma-Bari 2025, pp. 264, € 20,00). All’amico Cadalanu, che si è occupato per oltre trent’anni di crisi e conflitti in tutto il mondo, abbiamo posto delle domande.

La vicenda libica è molto recente, e non è nemmeno sparita dai giornali. Che cosa aggiunge questo libro a quello che già si sa?

“Il libro costringe a rivedere la storia della Libia, e a capire che contro Gheddafi furono costruite bugie esattamente come quelle contro Saddam Hussein. Tutti ricordiamo le immagini di Colin Powell alle Nazioni Unite, quando esibiva le fiale di carbonchio che secondo i servizi segreti statunitensi l’Iraq voleva usare come arma. Quelle immagini sono diventate un simbolo delle manipolazioni utilizzate come pretesto per lanciare un intervento militare e ottenere un cambio di regime. Ma anche con la Libia le bugie sono state indispensabili per l’Occidente, per giustificare la partenza di un’operazione militare che rovesciasse il colonnello. Poco importava se la sua caduta doveva, come poi si vide, aprire la strada al caos”.

Che fonti ha usato per arrivare a queste conclusioni?

“In realtà per la grandissima maggioranza le informazioni utilizzate vengono da fonti aperte: documenti ufficiali, articoli di giornale, rapporti di centri studi, approfondimenti sui libri. Ho aggiunto qualche intervista realizzata ad hoc, più i ricordi di prima mano, di quando seguii la rivoluzione lavorando come inviato per La Repubblica”.

Ma allora, com’è che il libro propone una nuova prospettiva?

“I giornali seguono una logica di cronaca battente, in cui la velocità spesso fa premio sulla correttezza delle informazioni, e questo significa che spesso le manipolazioni trovano spazio e contribuiscono alla costruzione dell’opinione pubblica mainstream. Ma quando si ragiona con un minimo di tempo, molte bugie appaiono per quello che sono”.

Insomma, a seguire una guerra i giornalisti sono manipolati?

“Nel libro racconto diversi tentativi di menzogna a cui sono riuscito a sottrarmi. Ma non posso certo escludere che, come tutti i cronisti, a volte sia stato ingannato anche io, e abbia dunque permesso a informazioni manipolate di venir pubblicate. Però un libro come questo permette di riflettere sui meccanismi dell’informazione e forse anche di evitare qualche bugia futura”.

Lei non crede alle motivazioni umanitarie delle guerre? Nel caso libico si invocava la protezione della popolazione civile. Che ne pensa?

“Più seguo la politica internazionale, più mi rendo conto che senza bugie le guerre non si fanno. E davvero le motivazioni umanitarie mi sembrano un modo sempre più ipocrita di nascondere interessi concreti. Nel caso della Libia, gli interessi erano ovviamente legati allo sfruttamento del sottosuolo, cioè ai contratti per l’estrazione di gas e petrolio, oltre che al progetto di cambiare gli equilibri geopolitici della regione”.

Come valuta il ruolo del nostro Paese?

“L’Italia ha partecipato all’offensiva contro Gheddafi dopo poco più di due anni dalla firma del Trattato di amicizia. Per quanto ho potuto ricostruire, l’allora primo ministro Silvio Berlusconi non voleva a nessun costo prendere parte alle operazioni, ma alla fine fu messo all’angolo per la sua debolezza politica e persino fisica. Ma tutti i governi, nessuno escluso, hanno visto i rapporti con la Libia in chiave di politica interna. I libici potevano fare il lavoro sporco, quello che gli italiani non volevano fare, cioè bloccare i migranti con ogni mezzo, anche a costo di abusi inaccettabili. E dunque sono diventati i gendarmi del Mediterraneo, che difendono le nostre frontiere arricchendosi con gli aiuti europei, senza il minimo rispetto degli esseri umani che devono gestire”.

Come le appare la Libia oggi?

“Se il regime di Gheddafi garantiva la stabilità, sia pure a prezzo di un controllo ferreo e della repressione dura di ogni dissenso, oggi non sono arrivate né un’autentica democrazia né il rispetto dei diritti della popolazione. In compenso il Paese è instabile e di fatto ogni possibile crisi è una minaccia che incombe sull’intera area del Mediterraneo”.

In questo momento il Paese appare spaccato in due, con l’Ovest che si appoggia sulla Turchia e l’Est che fa riferimento alla Russia. Crede che questa situazione possa cambiare in tempi brevi?

“No, non lo credo. Penso anzi che una possibile schiarita della situazione in Ucraina permetterà a Mosca di contare su nuove truppe, soldati o mercenari delle Wagner, da mandare in Libia. Non solo: non si parla quasi più delle elezioni presidenziali che dovrebbero permettere una ripartenza politica. Insomma, non si può nemmeno escludere che la divisione a metà del Paese diventi una secessione di fatto”.

E se questo portasse alla pace?

“Non ne vedo i presupposti. Mi pare che in questo momento le istituzioni delle due metà siano ben lontane dal garantire stabilità. In questa situazione si possono creare nuovi spazi di azione per gruppi come l’Isis. Ma soprattutto, se manca lo Stato, la popolazione è abbandonata a se stessa. Ne sa qualcosa la gente di Derna: nell’alluvione del settembre 2023 sono morte almeno seimila persone, ventimila secondo alcune fonti. In altre parole, è mancata la manutenzione e persino la gestione dei soccorsi è stata disastrosa. Per un Paese che galleggia su un mare di petrolio, non è un segnale confortante”.

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