di Rock Reynolds
Non è certo una sorpresa che i predicozzi delle destre trovino terreno fertile in situazioni di grande travaglio socioeconomico, quand’anche non politico. Giovanna Musilli nel suo primo libro, Io non voto Giorgia, lo dice a chiare lettere: «la povertà porta (quasi) sempre a destra. Ovunque, dalla notte dei tempi». Basta guardarsi intorno per restare folgorati dalla realtà sconfortante di quanto rapidamente abbiano attecchito certe idee in tutto il mondo in quest’epoca di crisi di identità profonda delle istituzioni democratiche e di crescenti slanci militaristi. Ed è quando le cose vanno male che il popolo privo di strumenti atti a discernere cerca facili capri espiatori: «gli immigrati, gli omosessuali, i musulmani, o financo… gli intellettuali, le voci del dissenso».
Una realtà sconfortante, certo. Chissà che qualche sorriso non possa venire in nostro soccorso. E di sorrisi ve ne strapperà parecchi un pamphlet uscito da pochissimo che mi sento di consigliarvi caldamente anche perché oltre a una prosa che si tinge spesso di sarcasmo, contiene un’analisi lucidissima di quei luoghi comuni della destra italiana che nel tempo hanno finito per renderne, agli occhi della gente, meno inquietanti i tratti peggiori.
Io non voto Giorgia – Anatomia di una destra tutt’altro che sociale (Graphofeel, pagg 200, euro 15) di Giovanna Musilli, docente romana di storia e filosofia nei licei che meriterebbe di scalzare parecchi esponenti illustri del giornalismo politico italiano, è una lettura illuminante. Con semplicità, chiarezza e simpatia ci spiega cosa non va nella narrazione che Giorgia Meloni e il suo governo quotidianamente ci propinano.
Di esempi di intemerate al limite della decenza da parte di esponenti della destra nazionale se ne contano a bizzeffe. È dei giorni scorsi il commento del presidente del Senato La russa in merito alla decisione dei giudici di far cadere l’accusa di violenza sessuale ai danni del figlio: “Un processo mediatico” è stato il suo commento. Ci sta che abbia gioito, ma avrebbe fatto miglior figura a mantenere un profilo molto più basso anche perché, senza entrare nel merito di un verdetto controverso, resta l’orribile imputazione di”revenge porn”, comunque una forma di violenza. Cosa dire delle ripetute supercazzole del ministro della Cultura Giuli o della palese inadeguatezza del suo predecessore? E che dire del ministro dell’Agricoltura? O delle ripetute sparate di Matteo Salvini in materia di politica estera?
Insomma, le destre, nei momenti di crisi valoriale, rispolverano immancabilmente il classico usato sicuro: i valori tradizionali di un’epoca aurea in cui si stava meravigliosamente. Quale epoca, nel caso della destra italiana? C’è chi, più o meno surrettiziamente, lascia a intendere che tornare ai fasti dei fasci littori non sarebbe male. Naturalmente, non può essere la dottrina ufficiale – in fondo, la nostra è una democrazia fondata su una Costituzione antifascista – e, dunque, le teorie più disparate si rincorrono. Torniamo all’impero romano: allora, sì, che si stava bene e che l’Italia (ma quale Italia?) godeva di grande prestigio internazionale. Più che prestigio era prevaricazione militare e sappiamo bene come venissero trattate le minoranze e le popolazioni soggiogate con la forza. Meglio fare un salto nel tempo, allora, e saltare a piedi pari il periodo infamante del crollo di detto impero sotto i barbari colpi dei… barbari, appunto, e approdare all’invidiatissimo Rinascimento. Peccato che, con la disgregazione dell’impero e la parcellizzazione dello Stivale in decine di staterelli bellicosi, invidiosi, rancorosi, l’unica cosa davvero bella – anche se per pochi – è l’incremento dato alle arti e alle scienze. Vogliamo parlare, allora, dell’Italia unificata sotto una sola corona, quella dei Savoia? A me parrebbe un azzardo, accertato abbondantemente dalle figuracce raccolte nel tempo da più di un membro della famiglia sabauda. Ah, già, dimenticavo: le radici cristiane del nostro paese. Ma l’Italia non è uno stato laico? In una società moderna, la parola “patria” non dovrebbe essere una sorta di divinità impalpabile, legata a fasti antichi, ma un mero concetto giuridico. Eppure, nell’immaginario popolare, sostenuto – si fa per dire – da una crescita esponenziale di un livello infimo di cultura quando non di un conclamato analfabetismo di ritorno – tali “valori tradizionali della patria” fanno enorme e rapida presa. Ogni volta che sento parlare di patria, mi si drizzano i peli sul collo e mi viene un principio di orticaria: solitamente, la parola magica “patria” viene tirata fuori dalla naftalina della destra per prevaricare su minoranze o categorie deboli, per indorare pillole fiscali indigeste al popolo oppure per prepararlo alla coscrizione e, addirittura, alla guerra. Come scrive Musilli, «non solo in Italia, il livello culturale medio è molto basso… di conseguenza gli strumenti intellettuali per difendersi dalla propaganda sono spesso esigui». Il riferimento nemmeno troppo velato di quel “non solo in Italia” va inevitabilmente agli USA che pagano decenni di insipienza nelle scelte relative all’istruzione nazionale, oltre che due secoli e mezzo di autoesaltazione pubblica.
Ma non è neppure vero, conti alla mano, che la maggioranza degli italiani sia con il nostro attuale primo ministro. E certamente non è ammissibile sentire la nostra presidente del Consiglio o chi per lei dire che, finalmente, in questo governo i cittadini trovano persone come loro perché, come dice Musilli, «chi ci governa non dovrebbe essere “come noi”, ma “meglio di noi”».
Vogliamo parlare, allora, di quella “famiglia tradizionale” a cui si appella spesso Giorgia Meloni, donna, madre e cristiana? Peccato che lei, al pari di una bella fetta della sua compagine di governo, viva nel peccato di una famiglia che, secondo i parametri a cui lei e la destra si ispirano, non rientra in quella definizione. Per farci due risate, basterebbe tornare all’iconica immagine del primo, leggendario “Family Day” promosso da Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pierferdinando Casini. Insomma, un bel… casino.
«Fratelli d’Italia ha avuto buon gioco ad accreditarsi presso gli elettori come una destra sociale», sempre dalla parte del popolo e pure da quella dei grandi industriali, quando non di veri e propri superricchi che, con il proprio potere economico, riescono a condizionare la politica globale: leggasi Elon Musk, tanto per fare un nome.
Ciò che, invece, la destra “sociale” indubbiamente fa è dare maggior potere e impunità alle forze dell’ordine – quant’è cara l’idea dello stato di polizia alle destre di tutto il mondo – e non garantire reale sicurezza in più ai cittadini. Ultimamente, sono ancora più evidenti il fastidio del governo per il dissenso giornalistico – peraltro sempre meno forte, un segnale di abbruttimento per qualsiasi democrazia – e il suo avvallo sfacciato a un neoliberismo che di sociale non ha davvero nulla.