di Alessia de Antoniis
Sul palco del Teatro Argentina, il Piccolo Teatro di Milano porta in scena Ho paura torero, struggente e visionario romanzo di Pedro Lemebel, in una trasposizione teatrale che è al tempo stesso un atto di amore – soprattutto di Guanciale che ha proposto il testo a Longhi – e di resistenza. Firmata da Alejandro Tantanian, diretta da Claudio Longhi, con Lino Guanciale nelle vesti di dramaturg e interprete, questa produzione è un ardito attraversamento del desiderio e della storia, della ferita e della bellezza, in un Cile sotto dittatura che pulsa di vita, miseria e ribellione.
La scena è Santiago del Cile, 1986, sotto il giogo di Augusto Pinochet. Eppure, quella che si svolge davanti agli occhi dello spettatore non è solo una cronaca di repressione e clandestinità: è un racconto di umanità. Al centro, la Fata dell’angolo – un bravissimo Lino Guanciale che ancora una volta si conferma un ottimo attore teatrale -, travestito malinconico e iridescente, che sogna l’amore e si ritrova invischiata in un’operazione militante; usata – o forse no? – dal giovane e aitante Carlos (Francesco Centorame), membro del Fronte Patriottico Manuel Rodríguez. Intorno a loro, un affresco caleidoscopico di personaggi, dalla caricaturale coppia presidenziale Pinochet–Doña Lucía, a una città sospesa tra miseria e passione.
La scelta di Longhi di non tradire la struttura originaria del romanzo, conservando la terza persona e l’irrinunciabile impasto linguistico di Lemebel, dà vita a uno spettacolo che è più un organismo letterario che una narrazione lineare. Lino Guanciale, in un ruolo coraggioso, è una Fata che vibra di fragilità e ardore, un corpo che trema tra la grazia del sogno e l’abisso della disillusione. Attorno a lui, il cast – Daniele Cavone Felicioni, Michele Dell’Utri, Diana Manea, Mario Pirrello, Sara Putignano, Giulia Trivero – dà voce e carne a una polifonia intensa, in cui l’eros si fa politica e la politica si fa tragedia.
Le scene di Guia Buzzi sono una danza tra realtà e delirio: tende, specchi, luci al neon, spazi che si aprono e si richiudono come ferite. I costumi di Gianluca Sbicca avvolgono i corpi in una teatralità barocca e malinconica, mentre le luci di Max Mugnai scavano i volti con una tenerezza crudele. Riccardo Frati firma un visual design che potremmo definire dissidente, capace di evocare tanto l’immaginario queer quanto quello della lotta clandestina. E le musiche – o meglio, i travestimenti musicali di Davide Fasulo – accompagnano lo spettacolo come una colonna sonora che mescola radio d’epoca e sogni infranti.
Ho paura torero è come un tango disperato. C’è in ogni battuta, in ogni gesto, in ogni occhiata, il peso della vita di Lemebel: poeta, performer, attivista queer e corpo resistente che, nella Santiago del Cile degli anni della dittatura di Pinochet, vive tra la polvere dei sobborghi segnati da violenza e disuguaglianze profonde.
È un atto politico: non solo perché denuncia la violenza di una dittatura e l’ipocrisia dei poteri, ma perché restituisce voce e dignità a chi è stato marginalizzato, vilipeso, ridotto al silenzio. La Fata dell’angolo, con le sue canzoni, le sue movenze, le sue danze, la sua fantasia illimitata, non è una macchietta ma un’eroina tragica. E in questo, l’interpretazione di Guanciale è monumentale, fatta di dettagli impercettibili, di sguardi, di pause, di movimenti che non cercano l’applauso ma l’empatia; che spezza con battute ironiche il peso di una narrazione che non si vuole drammatica.
Ho paura torero spinge lo spettatore a sentire la rabbia, la solitudine, l’ingiustizia, ma anche il desiderio, la tenerezza, la speranza. È, in fondo, un grido di resistenza mascherato da serenata. E in tempi in cui troppo spesso ci rifugiamo nella distanza, questo spettacolo ci ricorda che la vicinanza è ancora possibile. Anche a teatro. Anche nella paura.
Dal comunicato stampa: «Mi sono immediatamente innamorato di Ho paura torero, più ancora che per la grande storia che vi si respira, per lo stile, per la qualità della scrittura di questo piccolo romanzo “fluviale”. Da qui è nata una curiosità che ha portato alla scelta di portarlo in scena – racconta Lino Guanciale – La nostra scelta, logicamente, è stata quella di portare in scena una “edizione teatrale” del romanzo».
Ecco, forse è proprio l’ “edizione teatrale” del romanzo” il limite di questo progetto – «C’è anche la fascinazione per la “forma romanzo” », ammette Longhi -. Ma, se chiudi gli occhi e ascolti solo le voci, sembra di ascoltare un radiodramma del secolo scorso. O un odierno audiolibro. L’altro limite è che se levi Lino Guanciale, lo spettacolo potrebbe non reggere.
Alla fine della replica al teatro Argentina di Roma sono andata via con una domanda: gli applausi scroscianti e i “bravo” sono per lo spettacolo o per Lino Guanciale?