Ci sono cose che nascono per caso e altre che sono figlie della passione.
di Rock Reynolds
Angelo Cennamo, avvocato esperto di diritto d’autore e copyright, nel 2016 ha fondato il blog Telegraph Avenue (www.telegraphavenuebooks.com), uno spazio in cui condividere il suo amore per la lettura e, in particolare, per la letteratura americana e confrontarsi con un pubblico di lettori in costante aumento.
A quasi dieci anni dai primi passi mossi da quegli inizi, Cennamo raccoglie le esperienze di lettura e di dialogo critico per regalarci un libro che è l’emanazione quasi diretta del suo blog, Telegraph Avenue. Itinerari di letteratura americana (Argon Edizioni, pagg 256, euro 20). Corredato dei bei disegni di Kornel Speranza, il libro è al tempo stesso un percorso critico nella contemporaneità della narrativa a stelle e strisce, un’analisi letteraria di un’America che oggi è sempre più alla ricerca di se stessa e, per finire – come si suol dire, “last but not least” – una raccolta preziosa di suggerimenti per chi non si accontenti delle ricette semplici di questo o quel critico di turno.
In Telegraph Avenue. Itinerari di letteratura americana troverete autori dai nomi celebri, come Thomas Pynchon, Stephen King, William Burroughs, Saul Bellow e Philip Roth, ma pure autori meno celebrati come Emma Cline, A.M. Homes e Ben Lerner. Soprattutto, ribadisco, troverete una passione non comune nel raccontare il loro percorso artistico, con riferimenti sempre puntuali sul contesto geopolitico e storico.
Ed ecco come ha risposto Angelo Cennamo ad alcune nostre domande.
Le va di contestualizzare la nascita del libro, partendo dal blog che lo ha ispirato?
«È stata una sorpresa innanzitutto per me, perché non era previsto. Tempo fa, Ada Natale di Argon Edizioni mi chiamò per chiedermi se mi andava di scrivere qualcosa sulla letteratura americana. Mi sarei preso tutto il tempo necessario e avrei scelto io gli argomenti. Accettai con piacere il suo invito, dal momento che l’idea di scrivere (anche fuori dal blog) mi frullava in testa da qualche anno. Il libro è l’ultimo tratto di un percorso di passioni che mi porto dietro dagli studi universitari. Subito dopo la laurea, curavo una mailing list con altri amici come me affamati di narrativa nordamericana. Eravamo quattro gatti. Ci scambiavamo libri fuori catalogo, edizioni rare. Ci perdemmo di vista. Nove anni fa, ho pensato di riprendere quella esperienza ma sotto altre forme: ho deciso di aprire un blog. Mi serviva un nome, adatto e in linea con i temi trattati, e che fosse americano. Proprio in quei giorni stavo leggendo un romanzo di Michael Chabon, già autore de I misteri di Pittsburgh, Wonder Boys, Le fantastiche avventure di Kavalier e Clay… Il romanzo era Telegraph Avenue. Telegraph Avenue è la strada che collega la città universitaria di Berkeley con quella operaia di Oakland, un’arteria importante ma anche uno dei simboli del melting pot americano. Chabon ambienta la sua storia in un negozietto di vinili situato su questa strada. Il Brokeland Records non è solo un’attività commerciale ma un ritrovo per tante persone sole, un posto per fare conversazione. Leggendo il romanzo, mi sono detto: voglio che il mio blog sia come questo negozietto, un luogo di scambio e di confronto tra me e i lettori. E allora l’ho chiamato Telegraph Avenue. È nato per gioco: a distanza di nove anni lo è ancora, un gioco (guai se non lo fosse), ma questo gioco si è trasformato in un’attività molto impegnativa. Oggi Telegraph Avenue ha migliaia di visualizzazioni in Italia e nel resto del mondo. Il secondo paese per numero di lettori è gli Stati Uniti.»
Nell’introduzione al suo libro, lei fa una domanda che credo in molti si siano posti anche riguardo ad altri temi. Oggi sarebbe ancora possibile vedere la pubblicazione di certi romanzi divenuti dei classici negli USA? Come la vede?
«Nell’introduzione faccio riferimento a un’ondata di neo-puritanesimo che sta allontanando la narrativa dalla sua vera missione, che non è quella di guidare i lettori ma di gettarli nel caos. La letteratura dev’essere fonte di smarrimento, non di insegnamento o di consolazione. È una questione complessa che investe la cosiddetta cultura Woke, ma c’è dell’altro. Non credo che oggi romanzi come Il teatro di Sabbath o Lolita avrebbero vita facile.»
John Fante in America non lo conosce quasi nessuno e da noi è assurto quasi a un ruolo di autore di culto. Come se lo spiega?
«Vero. Quando morì, l’8 maggio del 1983, in America Fante non se lo ricordava nessuno, in Francia però era diventato un mito. Fante si è guadagnato da vivere scrivendo per il cinema, il suo successo da romanziere è stato fondamentalmente postumo e fuori confine. Senza l’intercessione di Bukowski, probabilmente di lui non si sarebbe saputo nulla neppure in Europa. Bukowski scoprì per caso Chiedi alla polvere in una biblioteca di Los Angeles. Se ne innamorò perché nelle vicende del protagonista ritrovò la propria storia. Quando Bukowski divenne un autore famoso, pretese dal suo editore di ripubblicare Chiedi alla polvere, che precedentemente aveva avuto poca fortuna. In Italia, Fante è amato per le tracce della sua identità italiana. Romanzi come La confraternita dell’uva e Aspetta primavera, Bandini sono degli straordinari romanzi “italiani”. Andrebbero letti nei licei. Aspetta primavera, Bandini sembra la trasposizione letteraria di un film di De Sica o di Rossellini.»
Proporre una serie di autori come quelli che lei suggerisce di leggere implica scelte dolorose. In base a quali criteri ha operato la sua selezione?
«Sono quaranta. Li ho selezionati per epoche, generi e ragioni di cuore. Ho preferito inserire nomi del passato come John Updike e Richard Yates a scapito di altri da noi più popolari e letti, perché penso che meritassero maggiore attenzione e visibilità. Stesso ragionamento per autori contemporanei come Rick Moody e H.M. Homes. Il libro si chiude con un poker di giovani donne: Raven Leilani, Emma Cline, Tiffany McDaniel e Rebecca Kuang, perché trovo che le cose più interessanti della nuova narrativa Usa provengano dall’universo femminile. In un’intervista di molti anni fa, Jeffrey Eugenides disse che la scena letteraria nel giro di qualche anno sarebbe stata dominata dalle donne. Ci è andato molto vicino.»
Da grande lettore di narrativa americana, se la sente di indicare uno o più tratti comuni distintivi che l’hanno affascinata particolarmente?
«Per cominciare, l’arte del racconto in sé, che gli americani hanno sviluppato meglio e prima di noi italiani (popolo di poeti più che di romanzieri) mescolando diversi linguaggi, da quello del cinema e della musica a quello del fumetto, per esempio; la ruvidezza di una prosa che non ha bisogno di abbellimenti o di inutili barocchismi, in certi casi; la propensione a uno sperimentalismo anche sfrenato, in altri. In Italia a gente come DeLillo e Wallace non avrebbero pubblicato nulla. La perenne ricerca della felicità, il tema ricorrente del viaggio, gli spazi sconfinati nei quali si riflette il respiro ampio di molte storie, la libertà da qualunque forma di indottrinamento.»
C’è un autore americano moderno a lei particolarmente caro che, invece, non ha avuto l’attenzione che secondo lei si meriterebbe?
«L’ho citata prima: A.M. Homes. Il complotto è stato libro del 2024 per Telegraph Avenue. Non conosco i dati, ma credo che in Italia abbia venduto pochissimo.»
Parlando di Don De Lillo, lei dice che il suo romanzo Rumore Bianco fu pubblicato in Italia per la prima volta da Tullio Pironti. Che importanza hanno avuto i piccoli editori nel far conoscere a lei e al pubblico italiano in generale certi autori?
«Tullio Pironti è un personaggio leggendario. A un’asta telefonica puntò tutti i suoi risparmi (cinquantuno milioni di vecchie lire) per soffiare a Mondadori il romanzo di esordio di Ellis: Meno di zero. Storie simili ne conosciamo diverse, basti pensare all’investimento dell’allora nascente NNEditore su Kent Haruf. Quattordici anni prima, Rizzoli aveva pubblicato Haruf nell’indifferenza generale. NNEditore lo ha ripescato e portato la sua “Trilogia della Pianura” in vetta alle classifiche. E poi i casi di Codice, che ha in catalogo Joshua Cohen, o di Atlantide, che pubblica la bravissima Tiffany McDaniel. Apprezzo molto il lavoro di promozione di grandi autori americani fatto da case editrici come Mattioli 1885, minimum fax, Jimenez, La nuova frontiera, Sur, Nutrimenti.»
Si sente spesso parlare di “romanzo postmoderno”. Se la sente di spiegare ai nostri lettori cosa si intende con quell’espressione un po’ arcana?
«Il postmodernismo è un fenomeno difficile da definire perché non è un movimento né una corrente né un genere. È un fenomeno smarginato che viene declinato di volta in volta in modo diverso. Nasce come superamento del modernismo. Nel 1950, William Gaddis pubblica Le perizie, un librone di oltre mille pagine tornato prepotentemente di moda nel tempo delle fake news e dell’AI. L’anno dopo, John Barth porta in libreria L’opera galleggiante. È l’anno zero del postmodernismo americano, che qualcuno vorrebbe morto con Foster Wallace e Vollmann. Io invece penso che questo “mood letterario” sia ancora vivo: Il libro dei numeri di Cohen e Topeka School di Lerner sono romanzi postmoderni in piena regola. Così come 4321 di Paul Auster o Telefono di Percival Everett.»
Fa sempre un certo effetto notare quanti siano gli autori newyorchesi, in larga parte ebrei, che figurano in molte analisi critiche della letteratura americana. Come se lo spiega? Qual è, sempre che secondo lei ce ne siano, la differenza principale con autori provenienti dalla provincia, magari dal Sud o dal Midwest?
«C’è una bella differenza tra l’America delle coste e quella del Centro o del Sud. Questa diversità si riflette inevitabilmente anche nella narrativa. Il Midwest ha un fascino particolare per il suo ritardo col progresso, per le sue tradizioni, per la genuinità, talvolta arretratezza, impermeabile a qualunque rivoluzione globalista che rimodella e appiattisce tutto. Credo che il Midwest sia l’ultima frontiera dell’America idealizzata dalla mia generazione e che sta scomparendo o dissolvendosi in nuovi credi e contaminazioni culturali. La più giovane autrice del libro è la sino americana Rebecca Kuang. Lei è molto brava ma lontanissima dall’immagine che io associo all’America. Sa di nostalgico, lo so, ma è quello che penso.»
Uno dei romanzi americani contemporanei (anche se l’autore è scomparso da diversi anni) più celebrati è Infinite Jest, di David Foster Wallace. Eppure, fu stroncato quasi come paccottiglia da diversi critici autorevoli. Lei da che parte sta e, soprattutto, come si pone di fronte a giudizi così tranchant?
«Dale Peck lo definì gonfio, noioso e fuori controllo. Harold Bloom un libro semplicemente orribile. Credo che Bloom ce l’avesse con Wallace – “Non sa pensare e non sa scrivere” disse – perché in una nota di Infinite Jest lui definisce la sua opera “merda dalla consistenza turgida”. Percival Everett in Telefono fa dire a uno dei personaggi che Infinite Jest è il romanzo più sopravvalutato della storia della letteratura. Io non faccio testo: adoro ogni riga di David Foster Wallace e Infinite Jest è sicuramente il suo capolavoro. Non sarà il caso di Bloom e di Everett, ma spesso mi confronto con critici o giornalisti che Wallace non lo hanno mai letto: l’intellettualismo di Wallace… È accaduto qualcosa di simile con Joyce negli anni Sessanta. Nei salotti della borghesia italiana si era diffusa l’abitudine di tenere su un tavolo o una poltrona una copia dell’Ulisse in bella mostra, in modo che, entrando, gli amici pensassero: wow, il padrone di casa legge Joyce!»