di Rock Reynolds
Caucaso. Una catena montuosa in larga parte impervia che fa storicamente da collante o forse, ancor più, da elemento di perenne divisione tra il continente europeo e quello asiatico. Posto tra Mar Nero, Mar d’Azov e Mar Caspio, il Caucaso resta tuttora un nucleo magmatico negli esili equilibri vigenti tra le ex repubbliche sovietiche e gli altri stati circostanti, una mina parzialmente inesplosa.
La posizione strategica ne ha sempre fatto un obiettivo primario per le mire di tutti i potentati locali, Russia, Unione Sovietica e, ora Federazioni Russa in primis. E il coacervo di lingue, tradizioni e religioni non ha certo reso meno complesso il quadro geopolitico. Negli ultimi decenni, dopo lo sgretolamento dell’Unione Sovietica e la creazione degli stati indipendenti di Georgia, Armenia, Azerbaigian e pure Ossezia del Sud e Abcasia, territori rivendicati dalla Georgia ma di fatto indipendenti, e delle entità federali russe di Cecenia, Daghestan, Inguscezia, Cabardino-Balcaria, Ossezia Settentrionale, Stavropol’ e Karačaj-Circassia, la tensione su confini spesso contesi e naturalmente sul controllo delle ricche risorse del sottosuolo ha superato più volte livelli di guardia quando non è sfociata in veri e propri conflitti regionali.
Basti pensare alle frizioni mai risolte tra Armenia e Azerbaigian, sul cui fuoco hanno soffiato vigorosamente il fondamentalismo islamico tanto quanto quello ortodosso. E che dire di Ossezia, Cecenia e Daghestan, paesi spesso in lotta tra loro oppure con il governo centrale di Mosca o di Tiblisi? Una sanguinosa guerra per l’indipendenza della Cecenia ha infuriato per anni, con attacchi eclatanti di gruppi (considerati da Mosca terroristici) a infrastrutture russe e, soprattutto, alla popolazione civile russa.
Molti ricorderanno due stragi che fecero particolarmente rumore, soprattutto per la scelta di Putin di soffocarle nel sangue, in spregio assoluto alla sicurezza degli ostaggi nelle mani dei terroristi ceceni: quella del Teatro Dubrovka (2002, a Mosca, con 130 civili uccisi, oltre a una quarantina di terroristi) e quella della scuola di Beslan (2004, nell’Ossezia del Nord, con quasi quattrocento morti e innumerevoli feriti). La strategia di Mosca, dai tempi degli zar a quelli dell’altrettanto imperialista Unione Sovietica è stata immancabilmente l’antica “divide et impera” oppure, laddove non potesse funzionare, scendere a patti con il nemico e farlo approdare a più miti consigli a suon di rubli. L’avidità ha raramente trovato un freno nella storia dell’umanità. Oggi, sappiamo che la riottosa Cecenia è largamente asservita agli interessi russi, al punto che il suo attuale presidente, Ramzan Kadyrov, detto “il macellaio di Groznyj”, è da tempo al fianco di Putin in molte delle sue scelte più spregiudicate sul piano militare internazionale e interno.
Per capire meglio il difficilissimo contesto caucasico e la portata delle violenze che in quelle terre si sono succedute negli ultimi decenni, vi suggerisco due letture agghiaccianti quanto illuminanti. Proibito parlare della compianta Anna Politkovskaja (Mondadori) e Le lupe di Sernovodsk della giornalista Irena Brežná (Keller Editore), due reportage a loro modo avvincenti che non fanno sconti a nessuno e che, senza lesinare resoconti indigesti, ci aprono gli occhi di fronte a violenze e ingiustizie che, di questi tempi, sembrano quasi una costante del mondo. Anna Politkovskaja ha pagato con la vita per quello e per altri libri e articoli di critica al sistema oligarchico russo e per aver tirato in ballo lo stesso Kadyrov, implicandolo direttamente nelle torture attuate dalle forze di sicurezza a lui legate.
Ma, forse, per non appesantire eccessivamente l’atmosfera, anche un bel romanzo storico può contribuire a schiarirsi le idee.
Il figlio perduto (Keller Editore, traduzione di Angela Lorenzini, pagg 319, euro 19), dell’azera Olga Grjasnowa, si inserisce a pieno titolo nella tradizione dei grandi narratori russi. Non dimentichiamoci che capisaldi della letteratura internazionale come Guerra e Pace di Lev Tolstoj e Il dottor Živago di Boris Pasternak sono a tutti gli effetti dei romanzi storici. Ed è in tale solco che si colloca Il figlio perduto, un racconto appassionante e ottimamente scritto, mai appesantito da cali di tensione e arricchito da una ricostruzione minuziosa di ambienti, cibi, luoghi, costumi, situazioni reali.
Siamo nel 1839, nel Caucaso Settentrionale, dove la guerra tra l’imam Shamil e l’esercito imperiale russo impazza da decenni. Finora, il potente Shamil è riuscito a rintuzzare ogni attacco della Russia zarista, ma il nemico si è fatto furbo e ha deciso di non affrontarlo necessariamente sul suo terreno, quello di una guerriglia logorante tra gli infidi burroni del Caucaso, preferendo tattiche più moderne per sfiancare la popolazione civile, affamandola e frustrandola. Quando il tracollo è ormai inevitabile, Shamil accetta di lasciare nelle mani dei russi il figlio primogenito di otto anni Jamalludin, destinato a prendere il suo posto. È la merce di scambio pretesa dai russi, la garanzia che Shamil non faccia il furbo prima dell’avvio dei negoziati. Il ragazzo viene portato a San Pietroburgo, quanto di più distante in termini geografici e culturali dal villaggio di montagna in cui è stato allevato, e verrà cresciuto secondo la tradizione militare russa, divenendo un cadetto prediletto dallo stesso zar Nicola, imparando il russo, abbandonando forzatamente le tradizioni di casa e finendo per assimilarsi al paese che lo ha strappato alla sua famiglia.
Costruendo la narrazione su un unico piano di successione temporale, dunque con uno stile classico che si adatta perfettamente al contesto, Olga Grjasnowa ci dipinge un affresco storico credibilissimo su cui va a incastonare una serie di figure realmente esistite, affiancandole a quelle di sua invenzione. I personaggi non sono mai unidimensionali e Jamalludin, autentico eroe della sua storia, trova la migliore rappresentazione possibile attraverso i normalissimi turbamenti di un adolescente che si trova ad affrontare non solo le difficoltà del classico passaggio di età, ma pure una profonda crisi di coscienza nel non sapere nulla della sua famiglia e nel pensare sempre più di essere stato abbandonato, sacrificato sull’altare della real politik. Ma l’autrice non cade nel tranello di ammantare di giudizi la narrazione, evitando il trabocchetto della contrapposizione forte tra cultura occidentale e orientale e della guerra di religione – peraltro ancor oggi paventata in quella parte di mondo – e preferendo raccontare gli eventi in maniera che siano le ricostruzioni storiche a prendere il lettore per mano e la caratterizzazione psicologica dei personaggi a farlo procedere speditamente fino all’ultima pagina.
Il consiglio, naturalmente, è di leggere questo romanzo e di affiancarlo sul comodino ai due dossier giornalistici indicati in precedenza.