di Rock Reynolds
Chi non ha sentito parlare della “diplomazia del ping pong”? Pensare oggi che una serie di partite a ping pong tra campioni americani e campionissimi cinesi nei primissimi anni Settanta abbia potuto fare da prodromo alla distensione nelle relazioni praticamente inesistenti tra gli USA e la Repubblica Popolare Cinese, con la conseguente, storica visita a Pechino dell’allora presidente Nixon, nel 1972, suona quasi irreale. Eppure, fu uno dei ponti che consentirono a quel rito di passaggio di diventare realtà.
Talvolta, basta poco. Quando si crea una frattura profonda tra due popoli, se non fra due mondi, cercare una base di valori condivisi è l’unica strada percorribile. Se tale spaccatura è più percepita che reale e affonda le radici in una diffidenza insensata per forme culturali distanti tra loro, è bene fare luce su tali presunte differenze e scardinarne le distorsioni pubbliche.
Lo sapeva bene Okakura Kakuzo, un intellettuale nipponico discendente di una famiglia di samurai vissuto tra il 1862 e il 1913. Dopo aver effettuato i suoi studi presso la Tokyo Imperial University, cuore stesso della tentata occidentalizzazione del Giappone da parte della potenza in ascesa degli USA, Kakuzo visse lungamente negli Stati Uniti, dove divenne consulente per l’arte giapponese al Museum of Fine Arts di Boston. Posto di fronte alle prime dimostrazioni dell’invasività della cultura a stelle e strisce e della volontà americana di farne un modello di riferimento internazionale, si riavvicinò alla cultura tradizionale del Sol Levante, facendosene in qualche modo paladino nel mondo.
Tra i suoi scritti, spicca soprattutto quello che è diventato un piccolo classico della letteratura giapponese, Il libro del tè (Elliot, traduzione di Piero Verni, pagg 123, euro 16,00), un’accorata difesa dei valori della tradizione orientale, della lentezza e dell’armonia come principi di vita.
Malgrado la bellissima immagine di copertina e il titolo, Il libro del tè non è un trattatello sulla cerimonia del tè e non contiene informazioni storiche su questa straordinaria bevanda che dalla Cina del Sud ha conquistato il mondo, da un lato grazie all’importazione nel vicino Giappone di concetti filosofico-religiosi vicini allo Zen e, dall’altro, sull’onda dell’enorme potere coloniale di potenze come Gran Bretagna e Olanda.
Con Il libro del tè, Kakuzo intende far capire all’Occidente, in un’epoca in cui la distanza con l’Oriente sembrava ancora incolmabile, la bellezza dell’arte e degli ideali orientali e sfatare certi falsi miti. «Noi asiatici… Veniamo raffigurati come esseri umani che vivono unicamente del profumo del loto, o, al contrario, di topi e scarafaggi.. Gli occidentali vedono in noi fanatismo impotente o abbietta sensualità. La spiritualità indiana viene derisa e considerata poco più che ignoranza infantile, la calma tranquillità cinese viene scambiata per stupidità, il patriottismo giapponese giudicato il risultato del fatalismo orientale. È stato persino detto che siamo meno sensibili al dolore e alle ferite grazie a una minore reattività del nostro sistema nervoso.»
Sembrano quasi parole stizzite, di fronte a chiacchiere da bar, ma la realtà ci suggerisce ancor oggi che la strada della conciliazione tra culture e stili di vita lontani resta lunga. Pensare che Okakura Kakuzo abbia avvertito il bisogno di affrontare l’argomento già nel 1906, anno della pubblicazione della prima edizione del suo libro, ne attesta la lungimiranza.
Dicevo che non si trovano nel suo libro grandi informazioni storiche e, in effetti, chi sia interessato a un excursus sulle vicende del tè – rammentando che fu proprio per protestare contro i dazi della Corona britannica sulle foglie di quella nobile pianta orientale che ebbe inizio la lotta di indipendenza delle colonie americane, nel 1773 – farebbe bene a guardare altrove. Ma qualcosa la scrive anche Kakuzo, ricordando che il primo tè fu portato in Europa dalle navi della Compagnia olandese delle Indie e che poi la bevanda fu introdotta nel 1636 in Francia e nel 1638 in Russia, paese, quest’ultimo, che ne sarebbe diventato uno dei maggiori estimatori. La bevanda era giudicata «eccellente, consigliata da tutti i medici cinesi e… chiamata Tcha, mentre le altre nazioni la chiamano Tay o Tee».
L’attrattiva del tè e le sue proprietà portarono a quello che viene definito Teismo, ovvero «l’arte di nascondere la bellezza affinché altri la possano scoprire e di suggerire quello che non si vuole rivelare». È il «sorriso del filosofo».
Naturalmente, la bevanda ebbe il successo che tutti le riconoscono non solo per presunte proprietà filosofiche, ma soprattutto per via di «numerose virtù che consentivano di alleviare la fatica, deliziare l’anima, irrobustire la volontà, rafforzare la vista».
La glorificazione del tè fu fatta per la prima volta da Lu Wu, vissuto a metà dell’VIII secolo, durante la dinastia T’ang, e autore del primo libro sulla materia. In quel periodo «Buddismo, Taoismo e Confucianesimo cercavano una sintesi comune». Una sintesi che si trasferirà ai legami tra Taoismo e Zen, suo successore, nel moderno Giappone. Lo Zen sostiene che l’uomo possa giungere alla suprema realizzazione di se stesso attraverso la meditazione e può esserci cosa migliore di una tazza di tè per predisporre l’anima a tale condizione?
Li Chi Lai, poeta dell’importantissima dinastia cinese Sung, scriveva che «le tre cose più deplorevoli del mondo sono: vedere la giovinezza devastata da un’educazione sbagliata… e tanto ottimo tè sciupato da una lavorazione imperfetta».
Sembrano parole scritte ai giorni nostri.
L’esperienza mistica cinese, trasferitasi in Giappone e fatta propria dalla scuola Zen Soto, ha portato nel tempo alla codificazione di una cerimonia del tè sobria ed elegante, per ottenere il meglio dalle magiche foglioline di Camellia sinensis, nome scientifico della pianta del tè.
Solitamente, bere tè non viene associato alle moderne icone pop, eppure il consumo di tè ha persino accompagnato l’evoluzione del rock’n’roll nel Regno Unito. Ne erano grandissimi appassionati, per esempio, i Beatles, che non mancavano mai di prepararne abbondanti tazze durante le tournée e pure nelle sedute in sala di incisione. Non a caso, il loro connazionale George Orwell aveva scritto nel 1946 un articolo pubblicato sul “London Evening Standard” per tessere le lodi di quella bevanda che, a suo dire, era una dei «capisaldi della civiltà» del suo paese.