di Alessia de Antoniis
L’Argot Studio di Roma è così piccolo che sei in scena anche tu. Stavolta per Macbeth. Di Shakespeare? Forse. È Macbeth di Filippo Gili. E Shakespeare? Quando uno speleologo riemerge da una grotta portando con sé delle pietre, sono la grotta? No. Eppure noi conosciamo la grotta attraverso quelle pietre. Forse è ciò che Gili ha fatto con Macbeth: è entrato in un luogo conosciuto ma non accessibile a tutti, dal quale in pochi riescono a uscirne con frammenti in mano. Senza perdersi, senza soccombere.
Quello che va in scena è un pas de deux tra Macbeth (un bravissimo Massimiliano Benvenuto) e il suo alter ego (Filippo Gili, che con questo testo torna anche alla recitazione).
Gili scende nel testo del Macbeth come Alice nel Paese delle meraviglie: lo capovolge, ne cambia misure e percezione, lo riflette in specchi deformanti. Ma lo conosce talmente bene da attraversarlo, rielaborando il dramma classico in chiave contemporanea e paradossale, per restituircene una parte che vale il tutto.
La solennità della profezia delle streghe shakespeariane si trasforma in indovinello; una lampada di design parla con la voce beffarda, quasi giocosa, dello stesso Gili. Una serie di battute smorza la gravità della predizione, trasforma l’atmosfera drammatica in una sorta di farsa, dove l’orrore e l’ambizione vengono trattati con un’ironia tagliente. Il destino oscuro e implacabile assume le vesti di gioco macabro. La mano di Gili abilmente trasforma una serie di sciagure in un gioco grottesco e irriverente. Fin dall’incipit lo spirito che rivive è quello delle vecchie locande di Southwark e non quello dei polverosi teatri ottocenteschi.
Siamo abituati a vedere Macbeth scontrarsi con il suo doppio, che sia Lady Macbeth o Banquo, ma qui il doppio è Macbeth stesso. Il tormento, l’ambizione, la brama di potere, la paranoia non sono più pulsioni interne, ma un personaggio reale, un diavolo, “colui che divide” Macbeth dai suoi valori e dalla sua morale. E così Gili trasforma una delle tragedie più oscure e potenti di Shakespeare in una black comedy. Il conflitto tra coscienza e ambizione, morale e istinto, non è più interiore.
Si chiede Gili nelle note di regia: “cosa scatena un sussurro degli dèi, se non disgregare la struttura di un uomo rendendo netta, diabolica, la sua complessità? Che succede a un uomo forte come una statua, leale come un eroe, se una divinità gli piazza davanti uno specchio?”. Ma non c’è un dio che gioca a dadi col destino: questo Macbeth è vittima delle proprie debolezze, vittima del suo alter ego. Quell’alter ego diabolico che Gili, in scena, ci restituisce come uno spiritello divertente, un bambino capriccioso, un adulto subdolo e manipolativo. Non c’è neanche un destino pre determinato: le parole dell’elmo luminoso che penzola non vengono credute dall’alter ego – e poi neanche da Macbeth “Un ciarlatano che ha azzeccato un numero per fortuna”-. La spaccatura interiore, il contrasto tra i due piani, è evidente già dalle prime battute.
La superstizione viene derisa con l’ironia e il sarcasmo delle battute, con atteggiamenti sardonici e i toni beffardi. È l’alter ego che istiga Macbeth a uscire dalla gabbia in cui sono stati rinchiusi gli istinti primordiali del bambino. Sono Macbeth e il suo alter ego a scrivere il destino. Non c’è una divinità malevola che porta Macbeth sulla strada del male: l’elemento dia-bolico separa quello che già c’è. Bene e male sono già in Macbeth. Le profezie delle streghe sono così vaghe da risultare neutre: l’interpretazione, la chiave di lettura, è nella mente di chi legge. Quella che chiamiamo casualità è solo incapacità di vedere i nessi nella realtà che ci si para davanti.
Il viaggio è all’interno di Macbeth, all’interno della sua caverna. Questo Macbeth è sempre libero di scegliere: il suo doppio gli offre delle possibilità – esilarante Gili che esulta muto quando vince sulla morale del re – . Anzi, spesso è l’alter ego che ci appare come un vile, uno che tira il sasso e nasconde la mano. Una figura che istiga, interroga, spinge alla riflessione – Prima mi sproni e poi mi ammazzi, obietta Macbeth.
Un viaggio che non termina prima di un nuovo capovolgimento: il ritrovamento di un altro pezzo di sé; la malinconia del “se”… “se” non avesse dato retta a quella voce; il ricongiungimento con chi ha compreso che “l’innocenza la perde il cervello, non le mani”.
All’Argot una coppia affiatata per un Macbeth. Di Shakespeare? Forse. Di Filippo Gili di sicuro.