I movimenti italiani dalla “protesta debole” al populismo

Alessandro Barile indaga sulle caratteristiche delle grandi mobilitazioni che hanno attraversato il paese nei decenni scorsi

I movimenti italiani dalla “protesta debole” al populismo
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28 Febbraio 2025 - 11.57


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di Marco Santopadre

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Alla fine dello scorso anno Mimesis ha pubblicato un interessante lavoro – “La protesta debole. I movimenti sociali in Italia dalla Pantera ai No Global (1990-2003)” – che indaga sulle caratteristiche delle grandi mobilitazioni che hanno attraversato il paese nei decenni scorsi, sui loro tratti di discontinuità rispetto ai movimenti dei decenni precedenti e sulla nascita dei fenomeni populisti.

L’autore del libro è Alessandro Barile (1984), storico e sociologo dei movimenti politici. I suoi interessi di ricerca riguardano la storia del movimento operaio, della partecipazione politica in Italia nel dopoguerra, e in particolare di storia del Pci, della “nuova sinistra” degli anni sessanta e settanta, dei movimenti sociali degli anni novanta e dei fenomeni populisti. Come sociologo si occupa anche di gentrificazione e di diritto alla città. Tra le sue più recenti pubblicazioni ricordiamo anche “Una disciplinata guerra di posizione (FrancoAngeli 2024)”, “Dopo la gentrificazione” (Derive Approdi 2023) e “Rossana Rossanda e il Pci” (Carocci 2023).
Gli abbiamo rivolto alcune domande a proposito dei temi trattati ne “La protesta debole”.

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Perché definisci i movimenti degli ultimi decenni – dalla Pantera al movimento no global passando per la stagione dei centri sociali – l’espressione di una “protesta debole”?

Considero la “rigenerazione” dei movimenti sociali negli anni novanta – che culmina a Genova nelle proteste contro il G8 – l’ultima vera grande mobilitazione di massa e di sinistra in Italia. Un movimento che ha avuto, per l’ultima volta nel nostro paese, la capacità di organizzare (anche fosse solo idealmente, sul piano dell’opinione pubblica) settori della società più vasti dei semplici bacini della militanza politica, e anche settori di classe lavoratrice non (ancora) rassegnata, pur in un’ottica confusamente post-classista. Ma nondimeno questa mobilitazione conteneva una debolezza intrinseca, ovvero non era fondata su una specifica visione del mondo, un’ideologia se vogliamo, concreta, verificabile, anche contestabile, ma esplicita. Vi era una prassi originale ed efficace, basata su di una sommatoria di proposte dal carattere utopico, e che lasciava a una tassonomia di parole d’ordine il compito di definire la cornice politica del movimento. Era anch’essa un’ideologia ovviamente, ma spontanea, proteiforme. La crisi del comunismo, che caratterizza intimamente i movimenti del decennio, non dischiudeva nuovi orizzonti ideologici finalmente liberati dalla “tragica materialità” del socialismo reale, ma trasformava questi in un patchwork dai contorni fortemente astratti, e quindi in ultima istanza deboli.

Perché a tuo avviso il movimento della Pantera ha rappresentato lo spartiacque di una nuova forma della politica?

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Con la Pantera si chiude un decennio – quello degli anni ottanta – di sostanziale resistenza. Con “sostanziale” non intendo “esclusiva”, ma il tono del decennio è quello di una comunità militante di sopravvissuti alla repressione, che tenta di sopravvivere attraverso la rielaborazione di codici comunicativi e ideologici a metà strada tra il vecchio e il nuovo. La Pantera apre a nuove forme di partecipazione, la Pantera è l’inizio degli anni novanta (più che la fine degli ottanta), perché rappresenta una cesura, in cui si forma una nuova generazione di militanti e dirigenti politici, che si auto-organizza attraverso le pratiche – divenute veri e propri “istituti” – dell’occupazione e dell’autogestione, e si diffonde nella metropoli dopo che il movimento universitario rifluisce rapidamente nella primavera del ’90. La Pantera, in sé, è poca cosa, ma la sua carica innovativa germinerà immediatamente dopo la fine delle occupazioni, nei centri sociali, che da quel momento saranno tutt’altra cosa rispetto a quello che furono fino al 1989. 

Il tuo lavoro evidenzia il fatto che, contrariamente a quanto si crede, gli ultimi decenni hanno visto un aumento e un allargamento della mobilitazione e della protesta sociale, e non una contrazione. Con quali caratteristiche?

Secondo le statistiche e le indagini della sociologia della partecipazione politica, la protesta è un dato connaturato alla società liberale occidentale. Non diminuisce con la fine degli anni settanta, anzi diventa endemica, si fa parte costitutiva del modo di associarsi della società civile. Ovviamente, però, cambia di qualità, e quindi di sostanza. Non vorrei ripetere cose banali già dette da vagonate di commentatori nostalgici del bel tempo antico; il dato più importante è che questa “dimensione protestativa” si articola per “single issue” o, piuttosto, per “mixed issues”, ovvero sommatoria di istanze civiche, che contribuiscono a separare la società intesa come “insieme di interessi” dalla Politica intesa come “palazzo” o “casta”. Ambedue le dimensioni si de-ideologizzano: la protesta si fa “sindacale”, la politica si fa (torna ad essere) amministrazione (non “delle cose”, ma “delle persone”). Di qui i problemi riferiti alla “tecnocrazia”. 

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Come si è passati da movimenti politici e sociali di sinistra dei decenni scorsi, per quanto assai diversi per caratteristiche e obiettivi da quelli precedenti, ad una mobilitazione che definisci di tipo “populista”?

Il cambiamento è allo stesso tempo enorme e insito nelle pieghe della “protesta debole” degli anni novanta. Apparentemente non potrebbero esserci due fenomeni più imparagonabili: l’uno “utopico-cosmopolitico”, l’altro “realpolitico-sovranista”. Eppure, se verifichiamo il tono e il carattere delle specifiche proposte politiche di una parte dei movimenti degli anni novanta, le ritroviamo identiche nei populismi “democratici”, o “di sinistra”, degli anni dopo la crisi economica del 2009: il reddito di cittadinanza, la propensione ambientalista, le sollecitudini alla decrescita industriale, l’antiproduttivismo, l’illusione della rete internet come spazio de-gerarchizzato, il tendenziale superamento della dicotomia destra-sinistra, il sospetto verso ogni “ideologia” o “visione del mondo” e così via. Ma al di là dei singoli temi, direi di una politica vissuta come impegno civico – qualcosa che davvero si oppone frontalmente alla militanza politica di sinistra fino agli anni ottanta (con “sinistra” intendo dell’estrema sinistra; per la militanza comunista nel senso del Pci le cose sono diverse).

C’è però una cosa totalmente divergente tra le due vicende: il ruolo che viene assegnato allo Stato, alla dimensione statuale: per i movimenti degli anni novanta lo Stato è un feticcio capitalistico da superare – e in ciò la globalizzazione appariva come un movimento dell’economia da “disciplinare” ma da preservare; per i populismi degli anni duemila lo Stato è il soggetto prioritario che protegge dalle conseguenze nefaste della globalizzazione stessa, dal suo procedere darwiniano che dilegua i diritti sociali e la convivenza stessa delle popolazioni. Di qui la straordinaria forza dei populismi per un quindicennio: la parola d’ordine “più Stato” era, ed è, sicuramente più efficace, concreta e immediatamente comprensibile rispetto alla “comunità globale” immaginata dai movimenti del decennio precedente. Ma va considerato il contesto: gli anni novanta erano anni di crescita economica; dalla fine degli anni duemila la crisi diviene un fatto strutturale delle società occidentali. La crisi rimette al centro del discorso la materialità degli interessi sociali, e i movimenti su questo piano risultano meno appetibili perché meno appetibile (anzi proprio indesiderabile) si fa la carica utopico-progressiva del loro messaggio di fondo. Rispetto alla riduzione di posti di lavoro e del welfare, “più Stato” si traduce immediatamente in difesa di ciò che rimane delle conquiste del passato. 

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In alcuni paesi – soprattutto in Spagna con Podemos ma anche in Francia con la France Insoumise o in Grecia con la prima Syriza – i movimenti contro il neoliberismo e la globalizzazione hanno prodotto la formazione di partiti politici di sinistra dai forti tratti populisti. In Italia è andata diversamente…

Checché se ne possa pensare in termini di “soggetto politico”, come “oggetto della politica” il Movimento 5 Stelle ha raccolto il testimone della fine dei movimenti, la rassegnazione/disillusione di quel pezzo di società che aveva guardato con interesse al discorso no global, e lo ha tradotto da par suo (quindi con un’estrema e disinvolta “sincreticità” ideologica) al tempo della crisi economica. Il M5S è in qualche modo il “populismo di sinistra” italiano. Certo lo è in modi completamente diversi rispetto a ciò che avviene in Francia, in Spagna o in Grecia. È una forma più compiuta di populismo se vogliamo, laddove negli altri paesi quei soggetti (Podemos, Syriza ecc) sono più chiaramente la proiezione di una tradizione di sinistra, partecipativa, dal basso. L’Italia non ha avuto un chiaro “populismo di sinistra” perché il M5S ha assunto questo ruolo. Possiamo valutare il modo nefasto in cui lo ha declinato, ma ciò non toglie la natura oggettiva di questo processo, se la guardiamo liberi dalle griglie ideologiche e culturali della “tradizione di sinistra”. 

Con ciò non voglio intendere che Grillo e Casaleggio fossero “di sinistra”, ma che la funzione politica svolta dal M5S dal 2008/2009 fino al 2018, persino nel momento in cui va al governo con la Lega, è una funzione che eredita le istanze di una parte del movimento no global riarticolandole dentro una dimensione spregiudicata e “sovranista” dei rapporti politici. Questo fa anche da tappo a ulteriori esperienze, dato che un doppione ancor più progressivo, come pure si è tentato, sarebbe stato ed è stato velleitario. A partire dal 2019 la natura del M5S cambia completamente: nel momento in cui apparentemente, e “politicisticamente”, questo si definisce meglio rompendo con la Lega e assestandosi nella sua alleanza col Pd, dismette la sua caratura (ripeto: oggettiva e non soggettiva) “anti-establishment”, per farsi, volente o nolente, parte del centro-sinistra.

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La vera domanda è: perché in questa fase in cui il M5S ha dismesso la sua funzione di “tappo”, la sinistra radicale italiana – una sinistra con una storia enorme, un modello per l’intero Occidente – fatica a ritrovare una sua dimensione compiuta? Perché non esiste una “sinistra reale” in un paese come l’Italia che per decenni ha fornito esempi notevoli in tal senso? Perché in altri paesi, penso alla Francia e alla Spagna, la sinistra gioca un ruolo politico e in Italia no? Per questo però occorrerebbe scrivere un altro libro. 

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