Non è un articolo sull’Iran, non è una recensione, non è il racconto di un film, è, invece, un inno al mio amore per un Paese e un popolo, è un inno al cinema iraniano ed è un immenso grazie al regista Mohammad Rasoulof ed a tutta la produzione. Una narrazione intima e istintiva.
Vorrei poter trasmettere l’emozioni di un film bellissimo, poter descrivere nei minimi dettagli un racconto cinematografico magistrale, vorrei poter raggiungere il cuore degli spettatori invitandoli a correre in sala (in Italia al cinema dal 20 febbraio) a vedere “Il seme del fico sacro” (THE SEED OF THE SACRED FIG), Premio speciale all’ultimo Festival di Cannes e Candidato agli Oscar come Miglior Film Internazionale 2025. Ammetto di non essere una spettatrice qualunque, il film parla del mio adorato Iran, delle mie amiche iraniane, della mia Tehran. Rasoulof fotografa con la sua sensibilità e il suo coraggio quegli occhi profondi e meravigliosi che hanno reso la mia vita più piena e intensa. I miei 8 anni in Iran sono rimasti gli anni più belli della mia vita, per adesso…Sono gli anni in cui ho compreso tante cose, anni che mi hanno regalato emozioni immense e indescrivibili, rendendomi consapevole dei miei limiti e del mio amore verso gli altri e che mi hanno insegnato, al tempo stesso, che le cose più scontate necessitano di cura e di difesa ogni giorno. Un periodo in cui l’amicizia vera ha scaldato il mio cuore quando ne avevo bisogno. Quel senso di appartenenza ad una comunità che sa regalarti una spalla su cui piangere e che sa condividere piccoli momenti di felicità e di stupore, sono decisamente affetta gravemente e felicemente dal mal d’Iran.
La storia di Mohammad Rasoulof è quella di un’artista, di un intellettuale che combatte ogni giorno per la libertà, per l’arte e per la verità. Un percorso fatto di talento, genio, censura, carcere, accuse e persecuzioni sino all’esilio forzato con una fuga verso l’Europa, la sua storia è purtroppo la storia di molti iraniani e iraniane. C’è poi la storia ed il destino degli attori e di chi ha collaborato al film ed è rimasto in Iran, una vita fatta per lo più di paura, di silenzi, di segreti ma anche di grande creatività, una capacità di adattamento insuperabile e un amore immenso per la propria terra, in sintesi è resistenza. Moltissimi grandi artisti, intellettuali, accademici hanno scelto volontariamente o impossibilitati dall’andare via di continuare a schiena dritta ad essere gli eredi di una grande civiltà e quotidianamente testimoniano il loro impegno e la grande determinazione di chi custodisce con fierezza l’orgoglio di essere iraniani.
Un po’ per caso o per quel fato in cui credo moltissimo, mi ritrovo a cinema, una settimana fa, al Metro Point di fronte al più grande centro commerciale del Sud della California: South Coast Plaza. Un cinema senza sedute reclinabili e avveniristiche dei cinema statunitensi, un cinema un po’ vintage, moquette, sedie di legno e velluto, sono con il mio compagno di vita di sempre, l’uomo che mi ha reso una cittadina del mondo, colui che mi ha condotto per il mondo, in posti che da buona borghese napoletana senza di lui non avrei mai vissuto. Con lui che mi ha insegnato ad amare l’Iran e che mi ha dato la possibilità di vivere una sfida straordinaria. Al suo fianco mi sono commossa e ho condiviso emozioni inaspettate, ed a lui per primo, ho detto mentre i titoli di coda scorrevano: “Questo film è bellissimo”. E la magia di vedere il film in persiano, con sottotitoli in inglese, la melodia di una bellissima lingua, la lingua di grandi poeti e letterati, la lingua delle piazze delle proteste, la lingua sussurrata o urlata nella famiglia protagonista della pellicola.
Mentre scrivo mi commuovo perché non è facile tradurre in un testo il turbine di sensazioni che ho vissuto. E allora mi faccio forza, cancello, riscrivo, e apro il mio cuore descrivendo a modo mio un capolavoro, fatto di tanti piccoli dettagli, di tante inquadrature, di tanti volti che raccontano una storia unica, di un Iran straordinario che ti rapisce, che ti rende schiava di un amore che nessuna violenza e nessuno evento possono cancellare dal cuore. Una cicatrice viva, un tatuaggio sulla mia pelle e su quella di tutti quelli che amano un popolo e un Paese complesso e magico. Un viaggio profondo e doloroso nei miei ricordi, che va oltre i giudizi superficiali, un mosaico fatto di tutto e il contrario di tutto, comprensibile solo a chi riesce a scavare dentro e andare nel profondo.
Il film descrive una famiglia all’apparenza come tante, e come moltissime famiglie iraniane sono le donne la potenza nascosta ed il motore di tutto. Un marito ed un padre con dubbi e insicurezze, che sembra avere una coscienza e che mette in discussione tante cose di un sistema di cui è ingranaggio ma che non condivide in toto. È una famiglia credente, moderna come tante. Il primo dettaglio che mi ha colpito sono le inquadrature delle mani degli interpreti: lo smalto “proibito “colorato delle figlie, gli anelli islamici da uomo, all’anulare , che segnano due fotogrammi molto importanti del film, i movimenti eleganti delle mani nel rituale della barba, le dita affusolate che tirano le tende scure, e quelle che firmano dei fogli durante un interrogatorio, le mani delle donne che si muovono liberamente anche quando tutto il resto del corpo è coperto. Nel “Il seme del fico sacro” c’è la grandezza e la maestria del cinema iraniano, la costruzione di una narrazione mai scontata, fatta di azioni che fanno precipitare la storia, di omissioni che scatenano la follia, un continuo stare sulle montagne russe delle emozioni e degli accadimenti, nulla di prevedibile e consueto. Un saliscendi di pensieri e di conseguenze, che rendono questo film un assoluto capolavoro che non lascia scampo a distrazioni.
Quante lacrime e singhiozzi vedendo le immagini delle proteste dopo la morte di Mahsa Amini, quanto sangue, quanta sofferenza e quanto dolore insieme al coraggio, alla determinazione, alla forza incredibile delle proteste, delle donne e dei giovani e non solo, le strade insanguinate da vittime innocenti che lottavano e lottano per la vita e la libertà. Immagini di repertorio che irrompono nel film, come guardate dalle finestre della casa dei protagonisti. Il film racconta proprio quei giorni tragici, concitati, violenti che cambiano la vita di molte famiglie e anche quella della famiglia raccontata dal regista di Shiraz. Giorni e fatti che aprono gli occhi ad una madre combattuta, preoccupata dallo status sociale e accecata dal preservare la sua famiglia da un’onda implacabile di coraggio e coinvolgimento. Giorni che rendono folle e paranoico un padre affettuoso, in un Iran che infligge dolore e amore. Immagini intense descrivono atmosfere cupe, il corridoio dell’ufficio di Iman con un cartonato del Generale Qasem Soleimani ( eroe del Regime, ucciso in Iraq) a grandezza naturale, le strade di Tehran con i corsi d’acqua che scorrono veloci, la cena per festeggiare la promozione a Darake ( località famosa di Tehran per i ristoranti sull’acqua proprio sopra il carcere di Evin), il velo rigoroso della moglie e il foulard colorato delle figlie, i bicchieri di thè serviti sul vassoio, le pentole con il riso e il koresh sul fuoco, i colori scuri imposti dalla religione eccetto la stanza delle ragazze, e le tende che servono a proteggersi dagli altri, ma servono anche a rimanere all’oscuro di un mondo che cambia, alle strade che ribollono di proteste e di voglia di libertà. E poi la fuga fuori città, nel villaggio disabitato di Kharanak, nella casa natia di Iman.
La sosta sulla strada dell’altopiano iranico è l’ennesima goccia che fa traboccare il vaso, una tensione che cresce ad ogni respiro, l’inizio di un vortice di pazzia che cresce sino alla perdita totale del controllo. I segreti avvelenano tutto, le cose non dette alimentano il fuoco, la paura di ribellarsi e di essere liberi che condanna il protagonista, e il compiacere gli altri e il rispetto delle regole in cui non si crede ma che diventano il timone di una vita, il fondamento dell’esistenza. Il capo famiglia cerca di imporre le sue regole che non hanno più senso e che le tre donne della sua vita, Najmeh la moglie e Reznav e Sana le figlie, non accettano più, e allora la violenza, la follia come unica soluzione, a rischio di distruggere tutto e diventare un carnefice crudele, intrappolato nel vortice di una mentalità che rende ciechi e disumani. Lui è proprio l’Iran della repressione e della paranoia, l’Iran che non riesce a fare autocritica e non riesce ad uscire da un labirinto pur sapendo di non avere via di fuga. Quel labirinto fatto di argilla e mattoni, dall’equilibrio precario e pericoloso, in cui si vivrà l’epilogo della storia. La vecchia casa di famiglia è nel villaggio abbandonato, sulla splendida strada per Yazd (la città più amata da Pasolini e città culto per gli Zoroastriani). Un luogo che ho visitato dal vivo, di cui ho cercato le foto il giorno dopo la visione, un modo per rivivere i brividi di un finale bellissimo, girato e ideato con maestria e tecnica. Tre donne fatte di granito, in un’ambientazione fragile che si sgretola, in fuga dalla violenza, tre donne sole che affrontano il labirinto dell’antica città fantasma, separate, per sfuggire dalla furia dell’uomo che amano di più al mondo. Tre iraniane che senza velo ma armate di coraggio e di grande intelligenza, spinte dalla paura e non solo, si ritrovano in cima alle rovine del villaggio, pronte al duello finale, unite dall’amore e dalla determinazione. Poche frasi, poche parole, il fiato corto di chi scappa, di chi si nasconde, di chi è in trappola ma non molla neanche di fronte all’inevitabile, le urla e quegli occhi che si incontrano per opporsi a chi non gli lascia altra scelta. Vincere è questione di vita o di morte.
L’Iran è già cambiato, l’Iran è donna, l’Iran ha deciso a qualsiasi costo per la libertà, le tre protagoniste Najmeh, Rezvan e Sana sono l’Iran di oggi. Sono loro che stanno cambiando la storia. Una storia che un Occidente ottuso e finto paladino dei diritti non comprende, che pensa, ancora, che la soluzione sia esportare il proprio modello di democrazia, bombardare e sanzionare. L’Iran di questo film è l’Iran che io amo con tutte le sue contraddizioni e i suoi problemi e che spero di rivedere presto.
A Mohammad Rasoulof va il mio grazie sincero per le emozioni che la sua opera mi ha regalato. A tutto il cast, la produzione, a tutti coloro che hanno reso possibile il film, sarò eternamente grata per aver realizzato con enormi difficoltà e in una situazione pericolosa, un’opera davvero sensazionale. Alle straordinarie attrici, Soheila Golestani, Setareh Maleki e Mahsa Rostami, che sono prima di tutto straordinarie donne voglio esprimere la mia ammirazione profonda, la mia vicinanza, la mia solidarietà; all’interprete di Iman, Missagh Zareh, voglio esprime la mia gratitudine per aver interpretato un personaggio molto lontano dai suoi valori e per aver reso palpabile cosa può portare alla lucida e crudele pazzia.
A tutti coloro che ogni giorno sono soggetti a interrogatori e minacce, vivendo in una costante paura e diffidenza va la mia solidarietà. Grazie a Rasoulof che dopo mesi di carcerazione ad Evin ha deciso di rischiare tutto e di tornare dietro la macchina da presa, consapevole dell’enorme rischio e pericolo.
Lancio un appello agli amanti del cinema, correte a vederlo e non perdetevi nulla, guardate i dettagli, cercate di comprendere anche gli sguardi, le pause, non perdetevi niente perché da questi particolari si può comprendere cosa rende gli iraniani speciali e cosa rende il cinema iraniano tra i migliori al mondo. Non so cosa succederà a Los Angeles a marzo, ma per me ha vinto insieme a tutti coloro che sono uniti da un unico slogan: “ Donna, Vita e Libertà” (in curdo Jin, Jîyan, Azadî) .
“Io voglio cantare come cantano gli uccelli senza preoccuparmi di chi ascolta o di cosa pensi.” Rumi