di Daniela Amenta*
Intanto si piange. Perché la lacrima è liberatoria e alza lo share. Un po’ come gli scazzi nei talk show, prevedibilissimi eppure irresistibili per i telespettatori. Quindi a Sanremo la commozione fa parte dello spettacolo, come i fiori. Ha pianto Clerici ricordando Frizzi, ha pianto Conti rammentando la mamma, ha pianto ma con ciglio asciutto anche Annalisa senza alcuna ragione in particolare. Ha pianto il pubblico dell’Ariston e quello a casa.
Forse si sarebbe concesso un singulto e un po’ di tosse anche il Santo Padre ma pare, pare eh, che il messaggio di benedizione Urbi et Orbi dedicato all’Ariston e al cantare leggero fosse stato registrato tempo fa. L’unica a sorridere finora è stata Bianca Balti, favolosa top model che senza mai parlare di cancro ne ha mostrato le ferite con una leggiadria meravigliosa, e Jovanotti che almeno le regole dello show buonista ma che funziona, io penso positivo, non le ha dimenticate.
Si piange in questo 75esimo Festival dedicato al privato, in cui la realtà oltre le nostre bolle è un optional. La guerra in Medioriente ridotta a un duetto tra Noa e Mira Awad, ebrea e palestinese mano nella mano, a celebrare “Imagine” di Lennon. Fantasia al potere degli autori.
Il resto – disoccupazione, malasanità, morti sul lavoro, paura, lo sgomento che ci assale, il neofascismo che preme, Trump e Musk, i dazi – non pervenuto. È un Festival a tinte pastello come i completi della premier Meloni. Un Festival dove ognuno racconta il proprio pezzetto di vita come una Waterloo che dovrebbe avere un senso collettivo. Nella top ten dei preferiti secondo la stampa e i social abbiamo Cristicchi che rigirando come un calzino i suoni di “Ti regalerò una rosa” canta la madre malata di demenza (chissà se concederà almeno il 50% dei diritti d’autore ai centri che si occupano del problema).
Poi abbiamo Brunori, ottimo cantautore della modernità, che perde ogni traccia dei graffi del passato raccontando i riccioli della figlia, trasformandosi in un De Gregori piatto, tre accordi tre, bella apapà. Non manca il miracolo, ovvero lo stupore nazional popolare che scopre Lucio Corsi (già super sponsorizzato da Verdone e Roberto D’Agostino nella serie tv “Vita da Carlo”), che canta e suona da quasi vent’anni, etereo e delicato, amatissimo dai cinquantenni indie che finalmente hanno un idolo da acclamare alla faccia dell’autotune.
Corsi paragonato ora a Bowie, ora a Peter Gabriel, ora a Marc Bolan, ora a Yattaman, cartone animato degli anni Ottanta, che rischia di trovarsi dentro il frullatore degli elogi, il più intervistato, fotografato, tiktokkato, condiviso, linkato, taggato. Anche Corsi, tra i ricorsi del Festival, omaggia il proprio privato come in una seduta da psicoterapia con Crepet. La morale è che i bulli sono cattivi, il mondo fa schifo, ma Topo Gigio ci salverà.
Lauro è passato dalla Rolls Royce a una Peugeot, segno del declino economico del Paese. Testo indecifrabile, nel senso che Achille è tanto elegante quanto vorace nel mangiarsi le parole e sarà la Crusca, un giorno, a spiegarci il meta significato degli “Incoscienti giovani” che vestono griffatissimi ma detestano la dizione. Il contraltare, per le note vicende di amori e disamori, è Fedez anche lui alle prese con il neuropsichiatra di turno sulla chimica della serotonina. Il pezzo, interessante ma buio come le sue lenti a contatto nere, si intitola “Battito” ma potrebbe chiamarsi “Ferragni”, “Milan” o “Angelica”, come l’ultima fiamma attribuita all’artista che con l’ex moglie Chiara ha trasformato la vita dei figli in un eterno Truman Show. E adesso azzera il senso di colpa grazie allo studio dei neurorecettori.
Altro personaggio gettonatissimo è Joan Thiele, la preferita dagli intellettuali di Rivista Studio, che la definiscono un mix tra “Radiohead e l’elettronica dei Massive Attack, le percussioni di Caetano Veloso e il sadcore di Lana Del Rey”. La ragazza si presenta sul palco con un chitarrone che neppure sfiora, come fosse un meteorite atterrato tra le sue braccia per caso, e una pedaliera che farebbe la gioia di Jimmy Page ma resta inutilizzata, al pari di uno yogurt scaduto.
Tra i super ospiti, oltre i Duran Duran (o dell’elogio degli anni Ottanta e della nostalgia canaglia), anche Damiano e Victoria, ex Maneskin, ognuno alle prese con gli affari propri, per fortuna spalmati in due serate diverse per evitare incontri imbarazzanti. L’asso nella manica di Conti è però l’imprevedibile, “pazza idea” dei premi alla carriera, suddivisi per par condicio di genere e di appartenenza politica a Zanicchi e Venditti.
Pari e patta, così che il Codacons non si innervosisca e Vannacci possa applaudire con il braccialetto luminoso al polso destro (naturalmente). Probabilmente vincerà come aggettivo preferito l’immancabile “iconico”, mentre, per quello che riguarda la gara propriamente detta, la regina sarà Giorgia, impeccabile, nonostante il brano rammenti qualche passaggio di Dalla, ma le note sono sette mentre le serate di Sanremo sono solo quattro. Ma più interminabili delle maratone di Mentana.
*Daniela Amenta è giornalista e scrittrice. Ex capo redattore dell’Unità, è stata critico musicale per le principali riviste del settore. Tanta radio, poi autrice anche per la tv. Ora si occupa di podcast per l’Agenzia Spaziale Italiana, botanica, gatti e letteratura.
Scrive da molto tempo anche per Globalist