"Babajé: la straordinaria storia di Francesco Romagnoli, tra sogni, solidarietà e speranza per il Tigray"
Top

"Babajé: la straordinaria storia di Francesco Romagnoli, tra sogni, solidarietà e speranza per il Tigray"

Dal cuore di Roma al cuore dell'Africa: la storia di un babajé che ha cambiato il mondo di 127 bambini nell'Etiopia in guerra

FRANCESCO ROMAGNOLI - BABAJÉ - Il richiamo dei bambini invisibili - Gremese ed. - intervista di Alessia de Antoniis
Francesco Romagnoli - Babajé - Il richiamo dei bambini invisibili - Gremese edizioni
Preroll

globalist Modifica articolo

26 Gennaio 2025 - 16.19


ATF

di Alessia de Antoniis

Con una semplicità che arriva dritta al cuore, BABAJÉ – Il richiamo dei bambini invisibili edito da Gremese, racconta un’avventura folle e straordinaria, che da oltre vent’anni offre sostegno e speranza ai più deboli del Tigray, regione etiope flagellata dalla siccità, dalle malattie e da un’atroce guerra civile.

Francesco Romagnoli è nato a Roma nel 1970 da una famiglia di professionisti. Laureatosi in Economia e commercio nel 1995, inizia a lavorare nello studio paterno ma nel 2000, dopo un viaggio nel Corno d’Africa, decide di lasciare tutto per trasferirsi in un piccolo villaggio nel Nord dell’Etiopia, dove vive stabilmente per quindici anni. Nel 2002, insieme ai familiari dà vita all’associazione James non morirà, e con i fondi raccolti ha realizzato un villaggio per bambini orfani, un centro contro la denutrizione, scuole, ospedali, strade, pozzi e molte altre iniziative. Rientrato in Italia nel 2015, oggi vive a metà tra Roma e l’Etiopia, dove continua a seguire i progetti già avviati e a svilupparne di nuovi. Babbaiè! (papà mio) è il grido di gioia che lo accoglie ogni volta che torna.

Se dovessi definire Francesco, lo definirei un sognatore pratico. Per molti Francesco è semplicemente Babajé.

BABAJÉ – Il richiamo dei bambini invisibili è un diario di viaggio appassionante; un viaggio non solo geografico ma soprattutto umano e spirituale.

Raccontare tutto in duecento pagine è stato difficile, ma volevo condividere una storia di crescita, empatia e incontro con l’altro. Inizia così la mia chiacchierata con Francesco Romagnoli.

Al di là dei fatti, cosa ti ha guidato verso l’Africa?

Non ho una risposta. Ho sempre avuto una predisposizione ad aiutare gli altri – mi viene dai miei genitori, soprattutto mio padre -, un bisogno quasi viscerale di donare e ricevere attraverso il legame umano. I bambini mi hanno sempre conquistato. Sin da ragazzo ho offerto il mio aiuto a case famiglia a Roma, e quella spinta si è trasformata in un desiderio di fare di più. Soprattutto per i bambini e per le donne, che in Africa sono le categorie più fragili, quelle che non vede nessuno. Ma è nato tutto per caso: sono partito per fare un’esperienza ed è diventato un percorso di vita.

Nel libro scrivi: seguire con consapevolezza la scintilla di sana follia che ci è stata donata: forse è il segreto per trovare la strada che conduce al proprio cielo…

Credo che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, riceva questa scintilla: un’idea folle, un’opportunità di cambiare qualcosa. La differenza sta nel darle aria, nel farla bruciare. Io l’ho fatto, rinunciando a tanto ma guadagnando molto di più in termini di senso della vita e gratitudine. La scintilla è un dono, qualcosa che ci spinge a uscire dalla nostra zona di comfort e a creare bellezza nel mondo. Mi sento fortunato perché ho avuto la possibilità di ascoltarla. Vorrei arrivare al giorno in cui, vecchio, guardandomi indietro, potrò dire che sono contento di quello che ho fatto.

Di quanti bambini sei un babajé? E cosa significa esserlo?

Ad oggi di 127. Essere un babajé – che vuol dire papà – per me è un privilegio immenso. Ho visto bambini arrivare con pochi giorni di vita davanti e oggi li vedo crescere, studiare, lavorare, costruire famiglie. Ogni volta che torno in Africa, siamo come una famiglia che si ritrova per Natale… Quei momenti di unità sono il regalo più grande. La cosa che mi emoziona di più è sapere che, senza il nostro aiuto, molti di loro non ce l’avrebbero fatta.

Come fai a non soccombere di fronte alle emozioni forti e al dolore che incontri?

Non è facile. Quando parlo della mia vita in Africa, mi commuovo. Non si diventa mai insensibili al dolore. Forse quello che mi salva è vedere la bellezza che nasce anche nelle situazioni più difficili. Ci sono momenti di rabbia e impotenza, ma li affronto cercando di fare del mio meglio ogni giorno.

Racconti di Mikal, arrivata da te da bambina e oggi giovane donna laureata e scrivi: “Era difficile saperla lontana, ma credo che questa sia una meravigliosa debolezza di ogni genitore”…

È un sentimento molto profondo. È come se questi ragazzi fossero parte della mia famiglia, anche se non sono figli biologici. C’è un legame speciale che si crea, un senso di responsabilità e di affetto che va oltre ogni immaginazione.

Si parla di adozioni fallite per le adozioni di bambini, soprattutto quelli che arrivano da zone di guerra, che poi vengono restituiti… Qual è la tua esperienza con le adozioni internazionali?

Intanto l’Etiopia è uno dei Paesi che ha chiuso alle adozioni internazionali. Non sono favorevole alle adozioni internazionali, non perché siano sbagliate in sé, ma perché credo che strappare i bambini dalle loro radici crei un ulteriore senso di smarrimento: può causare molti traumi. Ci sono poi le discriminazioni razziali che rendono difficile l’integrazione. E un bambino dell’Africa ha oggettivamente più ostacoli di uno della Bielorussia.

Sono bambini che fanno fatica a integrarsi, soprattutto a causa del colore della pelle. Spesso si sentono diversi, il legame con la terra e le origini è fortissimo e desiderano tornare alle loro origini. Ho conosciuto molte famiglie adottive che hanno affrontato enormi difficoltà.

Per me è più semplice lavorare con i ragazzi nel loro contesto. Cerco di offrire loro una vita dignitosa, rispettando la loro cultura e le loro tradizioni. Mi piace vederli crescere nel loro ambiente, sentendosi parte di una comunità. Se in futuro vorranno viaggiare o trasferirsi, li sosterrò, ma credo che sia importante che abbiano solide basi culturali.

Olivia passava le sue giornate in uno stanzino buio sul retro di un bar. I soldati a turno entravano e uscivano portandosi via ogni volta un pezzo di lei…

Olivia è un soprannome… era una bambina di una tenerezza unica. Faccio fatica a parlarne: per me sono ferite ancora aperte. Adesso ha due figli, si è sposata. Tutte le volte che torno in Etiopia è la prima ad arrivare e l’ultima ad andare via. La sua gratitudine mi scalda il cuore.

Mi è capitato di parlare con figli di immigrati dall’Africa, ormai italiani di seconda o terza generazione, e hanno tanta rabbia…

La rabbia delle seconde generazioni nasce da una mancanza di opportunità e da una percezione di esclusione. Viviamo in società non ancora pronte per una vera integrazione. I giovani sentono il peso del confronto con una realtà che non offre loro le stesse possibilità, e questo crea frustrazione e, a volte, violenza. Credo che si debba lavorare su un’integrazione basata sul rispetto reciproco, non sulla tolleranza, che è un concetto intrinsecamente condiscendente.

Anche in Africa i miei ragazzi hanno cominciato a sviluppare rabbia e frustrazione quando hanno avuto accesso a internet. Vedere su Instagram persone che sembrano vivere in superattici con piscine, circondati dal lusso, crea aspettative irrealistiche. Quando si rendono conto che quella non è la realtà, la delusione si trasforma in rabbia.

E quelli che arrivano, anche se lavorano, vivono situazioni dove si sentono sempre perdenti. Non è solo un problema solo italiano: lo vediamo in Francia, negli Stati Uniti. La società non è ancora pronta per una vera integrazione. Ecco perché, quando mi dicono “mi dai 5 o 6 mila dollari per andare in Europa?” rispondo: non te li darò mai! Te li do per costruirti qualcosa qui, non per affrontare l’inferno per raggiungere un mondo che non esiste, che è completamente diverso da quello che vedi sui social. Quella non è la realtà! Ma loro vedono le foto e pensano sia tutto vero. E fanno indebitare famiglie che non hanno nulla per morire magari nel deserto. Contiamo i presunti morti nel Mediterraneo, ma sono molti di più quelli che al Mediterraneo neanche arrivano.

Nel tuo libro racconti di bambini buttati ma anche di madri con un coraggio inimmaginabile. L’Africa è un continente, non si può sintetizzare, ma cosa non capiamo di questa parte del mondo?

Il valore della vita in Africa è diverso rispetto a quello a cui siamo abituati. In alcune zone, la morte è una presenza costante, quasi normale. Questo influenza profondamente il modo in cui si vive e si pensa alla vita stessa. Ad esempio, le giovani madri, spesso poco più che bambine, magari violentate, abbandonano i loro bambini perché non sanno come gestirli o perché sono costrette da circostanze estremamente difficili. Sono realtà dove c’è una sofferenza immensa.

Certe cose per noi sono incomprensibili. Ricordo una volta in cui cercavo di convincere una madre a portare il figlio in clinica perché stava morendo, e lei mi rispose: ‘Ma posso farmi il caffè lì dentro? Se non posso, non vengo.’ Quelle parole mi hanno spezzato. Come fai a non farti sopraffare da certe situazioni?”

Troviamo bambini abbandonati nei canali di scolo, nei boschi. Io dico: lasciatemeli fuori dal cancello almeno, così li posso trovare. Perché quando li lasciano in posti sperduti, è difficile salvarli. La mattina li ritroviamo mangiati dalle iene.

Ricordo quando mi chiesero: “Hai solo due figli? Ne devi fare almeno sei o sette perché almeno quattro ti muoiono”.

Ciò che ho visto durante la guerra mi ha lasciato senza parole. La crudeltà sistematica è qualcosa di inconcepibile per noi. Quando sono tornato, per due anni non sono riuscito a parlarne con nessuno. La guerra porta a livelli di brutalità che sfidano qualsiasi spiegazione logica.

Come ti senti riguardo al percorso che hai intrapreso?

Mi sento fortunato. Ho avuto il coraggio di ascoltare quella scintilla e di seguirla, e questo mi ha cambiato la vita. Alla fine, ciò che resta di noi sono i sorrisi che abbiamo donato e le vite che abbiamo toccato. Il senso della mia vita è tutto lì.

Native

Articoli correlati