di Rock Reynolds
Paolo Pasi non è esattamente il prototipo del giornalista Rai, ammesso che ne esista uno. Scapigliato, diretto, appassionato di musica al punto da imbracciare tuttora la chitarra per scrivere canzoni o esibirsi, pare dotato di una creatività a tratti incontenibile, che si fatica a pensare del tutto a suo agio negli austeri corridoi di Corso Sempione. La sua stessa produzione letteraria ha un che di decisamente trasversale, spacchettando il suo volto televisivo di lettore del TG nazionale per RAI3 in una serie variegata di interessi culturali e narrativi.
Vincitore nel 1995 della prima edizione del Premio Ilaria Alpi e in forza alla RAI dal 1996, Pasi alterna la sua produzione letteraria tra la narrativa – compresi un paio di raccolte di racconti e poi il romanzo d’esordio del 2007, L’estate di Bob Marley, una sorta di manifesto della sua scrittura, con nostalgiche memorie della giovinezza che si intrecciano a eventi epocali – e la saggistica. Titoli, tra gli altri, come Pinelli una storia, (elèuthera, 2019) e Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove (elèuthera, 2023) sono una chiara indicazione di certe sue passioni.
La sua vicinanza elettiva alle battaglie popolari di una Milano che, ripresasi dalla durezza degli Anni di Piombo, ha già iniziato a tuffarsi con effimero entusiasmo nel travolgente edonismo internazionale da cui il risveglio sarà ancor più brusco, la dice a sua volta lunga. È la “Milano da bere” delle giunte socialiste e della travolgente prima stagione del berlusconismo. Ma alle atmosfere patinate dei locali à la page, frequentati da top model e calciatori, Pasi pare prediligere le brume padane di serate rese ancor più fosche dal fumo delle sigarette di certe bettole. Insomma, meglio la “Stalingrado d’Italia”, quella Sesto San Giovanni oggi declassata a derelitto dormitorio ma un tempo fiorente centro di industrie e fucina di pensieri alternativi, rispetto alla Terrazza Martini. Quindi, meglio sgomitare per un posticino in curva che accomodarsi su una poltrona della tribuna VIP.
Ecco, banalmente, la genesi de Il giorno di Hateley (Edizioni Interno4, pagg 133, euro 14) ultima fatica letteraria di Pasi, un’opera anomala, in bilico tra memoir, romanzo di formazione e ricostruzione storica. Di fratto, è la cronaca di un derby trasformatosi in ricordo indelebile per la metà milanese neroazzurra (una sconfitta in rimonta, per giunta a opera di un attaccante dal nome complicato, piombato dal nulla in terra meneghina per poi, di fatto, tornare nel triste anonimato) e timbrato a fuoco nella storia dei successi da rammentare per quella rossonera.
Per coloro a cui piacciono i segnali, i riti di passaggio, la cabala e via discorrendo, nel gol immortalato dal bellissimo scatto dello stacco imperioso di Mark Hateley sull’impotente Fulvio Collovati – il “traditore” che aveva da poco scelto di ridipingere di azzurro le strisce rosse – sulla copertina de Il giorno di Hateley c’è un sentire quasi hollywoodiano in cui, a distanza di 41 anni, si annuncia la gloria imminente dei successi del Milan targato Silvio Berlusconi.
Il libro è corredato di suggestive immagini d’epoca e di un paio di interviste a personaggi legati agli eventi, oltre che di un appassionato contributo di Marco Civoli, collega di Pasi alla RAI.
Signor Pasi, lei ha scritto tanti libri diversi. Come le è venuto in mente di dedicarne uno a una sua grande passione come il calcio?
«Non si tratta di un debutto improvviso, perché negli anni ho dedicato al calcio altri racconti. Ho frequentato lo stadio di San Siro per oltre quarant’anni, ne avevo sei quando ho contratto il morbo del tifo per il Milan di Gianni Rivera e Nereo Rocco. Lo stadio, per me, non è mai stato un semplice luogo in cui ammirare il gesto tecnico, ma un collettore di emozioni, un crocevia di storie che attraversano le classi sociali e le loro vite quotidiane, e si fondono in un respiro collettivo. Un luogo di possibile riscatto, direi, com’è stato sicuramente nel derby che ho voluto raccontare ne Il giorno di Hateley. Fu una partita storica per i tifosi rossoneri. Il Milan, che non batteva l’Inter da sei anni, vinse in rimonta grazie a un gol di testa di un centravanti inglese Mark Hateley, la cui elevazione fu immortalata da una fotografia diventata epica. Per Hateley fu l’apice di una carriera che durò poco, come se il suo volo verso il cielo di San Siro esigesse anche un brusco ritorno a terra. È questo che mi affascina del calcio: la sua potenziale valenza letteraria e poetica che smentisce, secondo me, quanti liquidano questa passione come del tutto futile. Ho voluto calare il racconto di quella partita nel contesto sociale dell’epoca. Era il 28 ottobre 1984: lo sciopero dei minatori inglesi era in pieno corso, Thatcher e Reagan stavano declinando i nuovi comandamenti del liberismo, la Milano da bere era in pieno tripudio nel suo appagamento di superficie, e io – giovane studente in Scienze politiche – stavo vivendo una crisi di orientamento. Il romanzo parte dalle inquietudini e dalle insicurezze sentimentali del ventenne che ero, in una successione di stati d’animo contrastanti che convergono sullo stadio e seguono in parallelo l’andamento della partita: dalla depressione dopo il primo vantaggio dell’Inter all’euforia orgasmica per il gol di Hateley. Ricordo che la vittoria finale mi infuse così tanta energia da fare da preludio a una rinascita dopo un periodo molto difficile.»
Molti, nel variegato mondo della cultura italiana, arricciano il naso quando si parla di sport, soprattutto di calcio. Eppure ci sono stati grandi autori, italiani e non, che ne hanno scritto con eleganza. Ha qualche modello di ispirazione?
«Secondo me, ce ne sono alcuni obbligati, come nel caso di Gianni Brera. Ma il mio cuore va decisamente verso alcuni scrittori outsider, primo tra tutti Luciano Bianciardi, talento assoluto e spesso misconosciuto che ha descritto ne La vita agra il lato oscuro del boom economico a Milano. Bianciardi era appassionato di calcio, e vi dedicò numerosi articoli venati d’ironia, mai banali, specchio di un anticonformismo che non risparmiava il mondo dello sport. Scanzonato e ironico fu sicuramente Beppe Viola, giornalista Rai, scrittore, autore di canzoni. Da ragazzo amavo le sue telecronache, sempre spiazzanti, diverse dagli standard dell’epoca, pervase di raffinato umorismo e originalità. Un narratore del calcio, come fu anche Gianni Mura, che ho avuto la fortuna di conoscere.»
L’amore per il suo Milan affonda le radici in un passato che, alla luce del calcio di oggi, sembra preistoria. Comunque, prima dell’avvento di Berlusconi presidente. Lei che non mi pare esattamente allineato politicamente con il centrodestra come ha vissuto quella stagione?
«A essere sincero, non l’ho vissuta in modo problematico, perché la passione per una squadra va oltre i suoi presidenti, sia nelle sconfitte che nei trionfi. Il tifo per i colori rossoneri non ha mai condizionato il mio comportamento elettorale, e tanto mi basta. Mi piace ricordare le parole di un grande tifoso rossonero, Enzo Jannacci, che alla stessa domanda rispose: “Non è che se Berlusconi si mette a fare il vino, io smetto di bere il vino”.»
Che cos’è che rende così letteraria una partita di calcio?
«Lo accennavo prima. Il calcio, o meglio il calcio vissuto allo stadio, è un condensato di storie, diventa simbolo d’altro, alimenta speranze collettive, lacrime, sofferenze, sogni, desideri di rivalsa sulla piattezza quotidiana: il gol come spasmodica ricerca di una rivincita sui ruoli sociali fissi e imposti. Non è già lo spunto di un racconto? Secondo me, non è il tabellino statistico dei singoli giocatori che conta, né l’organizzazione societaria che rende possibile una partita, ma è ciò che il tifoso ci legge dentro, il suo lato mitologico. Malattia? Segno di disadattamento sociale? Forse. Per quanto mi riguarda la frequentazione della curva milanista nei vecchi “popolari” è stata anche orgoglio di appartenenza a una classe sociale radicata nelle periferie di Milano.»
Il periodo che lei racconta del Milan è stato a vario titolo caratterizzato dalla presenza di giocatori inglesi. Hateley su tutti, ma pure Wilkins e Blisset, il negher. C’è un po’ di nostalgia?
«La nostalgia riguarda i calciatori che ci hanno messo il cuore, che giocavano con magliette appena spruzzate dal nome di uno sponsor e scendevano in campo quando i tifosi erano in attesa da ore, perché i posti non erano ancora numerati. E sapevano ripagare la fiducia. Da questo punto di vista, la provenienza dal calcio anglosassone appariva come un affidabile marchio di fabbrica. Penso ai giocatori che hai citato, ma anche a Joe Jordan, centravanti scozzese soprannominato “lo squalo”, rimasto nel cuore dei milanisti over 50.»
Trovo che lo sport tutto sia caratterizzato da riti, tanto da parte dei protagonisti che dei tifosi. Lei quali ricorda con maggior affetto?
«Un classico rituale prepartita era quello del caffè scaramantico in un bar di via Don Gnocchi, a due passi dallo stadio. Poi c’erano i rituali dentro lo stadio: i canti della curva sud, l’inno della Fossa dei Leoni, l’emozionante crescendo nell’attesa della lettura delle formazioni, il saluto dei giocatori che scendevano in campo, soprattutto di uno di loro: un giovane talento dalla maglia numero sei, libero di ruolo e di fatto, chiamato Franco Baresi.»
Le capita ancora di andare allo stadio?
«Da qualche anno non mi capita tanto spesso, per una serie concomitante di ragioni: la sovrapposizione con impegni di lavoro e familiari, le macchinose procedure (così paiono a me) per procurarsi un biglietto, una maggiore pigrizia. Più di recente, la frequentazione di San Siro è stata rimpiazzata dal bar, che offre a suo modo una fruizione collettiva della partita, seppure in tono minore.»
Le è mai successo di dover fare non dico la telecronaca di una partita ma qualche servizio sulla domenica calcistica?
«Sì, mi è capitato di fare servizi di sintesi di alcune partite e devo dire che la differenza è netta: da un lato il lavoro esige precisione, consiste nello scalettare le azioni salienti della partita, gli episodi contestati. In sostanza occorre un massimo grado di attenzione e concentrazione, come richiede qualunque resoconto giornalistico. Rispetto al tifoso manca la libertà di vivere la partita come si desidera, con il batticuore o, se del caso, concedendosi una temporanea pausa di distrazione.»