di Diego Perugini
E’ uno dei dischi più controversi della carriera di David Bowie. Parliamo di “Young Americans” che il 7 marzo 2025 compirà 50 anni e, nel giorno esatto della ricorrenza, uscirà in edizione limitata come LP masterizzato a mezza velocità e come LP Picture Disc con un poster.
Un disco controverso, si diceva. Perché mostrò un altro volto dell’artista inglese, lontano mille miglia dall’epopea glam di Ziggy Stardust che l’aveva portato sul tetto del mondo.
Invece di proseguire sul fortunato filone, Bowie decise di cambiare e cominciò una marcia di avvicinamento al genere soul, che culminò nelle lunghe e tribolate session di “Young Americans”, tra Philadelphia e New York, animate da grande creatività e uso sfrenato di stupefacenti. Con Bowie si trovarono in studio musicisti d’altissimo livello, come David Sanborn, Carlos Alomar e Luther Vandross, a creare un suono molto “black”, influenzato dal r&b americano, ribattezzato “plastic soul”.
Tra cambi di scaletta, canzoni scartate (le notevoli “Who Can I Be Now?” e “It’s Gonna Be Me”, ripescate in seguito), titoli modificati e altro ancora, si arrivò non senza difficoltà alla versione definitiva.
Quando il disco finalmente uscì, il 7 marzo 1975, le recensioni (anche in Italia) furono tiepide, se non apertamente negative. Con l’accusa di aver strizzato l’occhio al mercato americano per raggiungere il successo laddove ancora non vi era riuscito.
Se questo era davvero l’obiettivo, Bowie colpì il bersaglio perché “Young Americans” vendette bene negli Usa. Meno in Europa.
E le canzoni? Riascoltate col senno di poi, sono molto intriganti. Con la voce del Nostro verniciata di soul, ma sempre magnifica.
A partire dalla torrenziale “title track”, con un testo critico su miti e politici Usa e una citazione lampo dalla beatlesiana “A Day In The Life”. A proposito di “Fab Four”: in un paio di pezzi ritroviamo ospite niente meno che John Lennon. Nello specifico: l’affilato funky di “Fame”, riflessione amara sul successo, arrivato al primo posto della classifica americana e, negli anni a venire, un punto fermo nei concerti. E poi l’ardita cover di “Across The Universe” dei Beatles, che a dirla tutta stride un po’ col resto del disco. Meglio le ballate “Win” e “Can You Hear Me” e i ritmi funky di “Fascination” e “Right”.
Piace ancora di più la lunga e ammaliante “Somebody Up There Likes Me”, dagli accenti gospel, con un’interpretazione molto intensa e sentita di Bowie. Mentre nel testo ritroviamo parole tutte da decifrare, nel criptico ritratto di una specie di superuomo, un leader, forse un politico, una celebrità o una divinità.
A “Young Americans” seguì un disco di transizione come “Station To Station” (peraltro molto affascinante), prima del ritorno in Europa e della famosa “trilogia berlinese”. Ma questa, come si usa dire, è un’altra storia.