di Raffaella Gallucci
Stefano Dal Bianco, poeta, critico letterario e metricista italiano, che insegna nella nostra Università di Siena ha incontrato gli studenti e la sua comunità accademica per parlare della sua raccolta, “Paradiso”, che ha recentemente vinto la seconda edizione del Premio Strega Poesia.
Questo utile e gradevole incontro, è stato organizzato dal collettivo Mimesis (studenti del dipartimento di Lettere, DFCLAM) che intende promuovere iniziative culturali come quella che si è tenuta in questa occasione. Abbiamo rivolto alcune domande al Professor Dal Bianco.
Da dove è nata l’ispirazione per “Paradiso”?
È nata dal fatto che non c’era umanità intorno nelle fasi di Lockdown 2020/2022 e soprattutto all’inizio ero costretto ad uscire per via del cane e il posto era il borgo di Orgia, in centro, dove siamo in trenta, dislocati e chiusi tutti dentro casa. Quindi l’ispirazione viene proprio dalla natura, dai messaggi che la natura ha sempre da distribuire e da emanare e che noi non sempre siamo in grado di accogliere e di ascoltare.
Paradiso vuol dire “giardino”, “luogo circoscritto”, “protetto”, però in realtà è anche uno stato mentale che ti permette di attraversare tutte le negatività dell’esistenza, sia quelle personali sia quelle collettive e di trascenderle in qualche modo. Per me era uno stato di grazia che ho raggiunto in quel momento e che probabilmente non tornerà mai più, a meno che non scoppi un’altra pandemia.
Nella sua opera, la natura è rappresentata come una forza viva e mutevole. Come descriverebbe il ruolo della natura nei suoi versi e il suo rapporto con la condizione umana?
La natura vissuta in un certo modo, con quella facoltà di ascolto che si ottiene soltanto con un enorme e lunghissimo lavoro su te stesso, quindi, se ti va bene ad un certo punto sviluppi quella facoltà di ascolto che, poi , è quello che la natura fa. Quello che si considera sempre o che non si considera affatto, è questo suo costruire un’identità, nel senso di conferire un autocoscienza.
Penso che molti di noi, non tutti perché certe persone stanno sparendo dalla faccia della terra, ma almeno io ho fatto in tempo a conoscerli quattro personaggi; persone che sono state tutta la vita a contatto con la natura e da soli come contadini, montanari, marinai.
Tante di queste persone hanno una “profondità di occhio”, come la chiamo io, che fa capire che la loro essenza interna è molto avanzata. Vedi in loro un’adultità nell’occhio che, purtroppo, la maggior parte delle persone non hanno.
Quella è la vera statura umana ed è quello il contatto con la natura mentre magari un gran professore può essere un bambino, dal punto di vista di essenza di anima che non è cresciuta, che ha coltivato un’altra cosa che è il sapere, la personalità, la cultura. Ma tutto ciò non c’entra niente con la statura umana, con l’età quella vera.
Il legame tra il protagonista e il suo cane sembra andare oltre i tradizionali temi di fedeltà e amicizia. Come descriverebbe la complessità di questo rapporto e cosa voleva trasmettere attraverso di esso?
Il cane, in quanto animale, fa da tramite fra uomo e natura. Quindi nel libro non viene mai espressamente dichiarata un’affettività o una cosa fra di noi. Siamo come due amici, un po’ un figliolo ma in qualche misura anche una guida, un po’ più un Virgilio che una Beatrice, perché non porta verso il cielo ma verso la terra vissuta in positivo, ovviamente.
“Nella testa di un cane” avrebbe potuto essere un titolo almeno di una sezione, se avessi accorpato tutte le poesie dove compare Tito, perché c’è questo sforzo di cercare di capire cosa gli passa per la testa nel momento, che visione ha, ovvero una visione raso terra: qualcosa che noi non riusciamo ad avere. Quindi, se considerato come guida, è più Virgilio che Beatrice.
Come vede il ruolo della poesia nel mondo moderno e nella vita di oggi?
In questo libro viene esplicitato tante volte un certo concetto, quello della sosta.
Parlavo prima di quello stato mentale, paradisiaco, che ti permette di ascoltare i messaggi della natura, quello stato non lo raggiungi se corri. Ti devi fermare, è chiaro. Qualunque stato di coscienza sviluppata ha bisogno dell’immobilità e di un assetto ricettivo mentre tutto il mondo porta da un’altra parte. Il mondo ci obbliga a correre costantemente, sempre di più. Ed è proprio questo il ruolo della poesia: farci fermare, ascoltare e indurci a smettere di chiacchierare.