di Diego Perugini
E’ uno dei migliori film concerto in assoluto. “Stop Making Sense” dei Talking Heads compie 40 anni. E, stavolta è proprio vero, non li dimostra affatto. L’abbiamo constatato di persona rivedendolo a distanza di tanto tempo in una delle feste-anteprime che stanno girando l’Italia in questi giorni. All’Alcatraz di Milano, per esempio, hanno organizzato un party anni Ottanta con dj-set, varie iniziative collaterali e la partecipazione speciale di Jerry Harrison, storico chitarrista della band americana. Momento clou, appunto, la proiezione del film. Non al cinema, ma in un club. Quindi tutti in piedi a ballare, cantare e scatenarsi come in un vero live. E qualcuno, alla fine, ha chiesto pure il bis!
E’ stata un’esperienza straniante e spiazzante, ma molto divertente, che ha coinvolto un pubblico multi-generazionale. C’erano i coetanei di David Byrne (leader della formazione), ma pure molti giovani che in quell’anno (era il 1984) non erano nemmeno nati.
Segno che la musica e il culto dei Talking Heads non temono il passare del tempo e delle mode. Ed è giusto così.
Fra poco, l’11, 12 e 13 novembre, il film arriverà nelle sale italiane in 4K e audio Dolby Atmos 7.1 con la Cinema Experience (elenco sale su nexostudios.it). Si tratta di una nuova edizione completamente restaurata con una colonna sonora rimasterizzata e curata dallo stesso Harrison. Vi consigliamo caldamente di non perderlo.
Perché è divertente, originale, trascinante. E molto altro ancora.
La regia è di Jonathan Demme (premio Oscar nel 1991 per “Il silenzio degli innocenti”), autore da sempre sensibile nelle sue opere a rock e dintorni. Una regia attenta ai particolari, ai corpi, alle espressioni, ai movimenti, a tutto quanto accadeva in scena in quegli spettacoli al Pantages Theater di Hollywood nel dicembre del 1983.
Senza mostrare il pubblico, se non verso la fine, e senza interviste di contorno per non spezzare l’incantesimo immersivo del live.
Un film-concerto dal forte impatto teatrale, insomma, che inizia con un Byrne solitario con registratore portatile a cassette e chitarra acustica. Parte con “Psycho Killer” ed è già emozione. Poi, pian piano, arrivano gli altri componenti della band: la graziosa bassista Tina Weymouth, il batterista Chris Franz e il chitarrista Jerry Harrison.
Quindi altri musicisti e coriste, fino a creare il “combo” micidiale dei pezzi più funk e allucinati.
Sul palco si suona, si canta e si balla come se non ci fosse un domani.
E’ un crescendo irresistibile e frenetico, che raggiunge il culmine in titoli come “Once In A Lifetime”, “Take Me To The River” e “Crosseyed And Painless”.
E, poi, i momenti di culto: Byrne che indossa un completo da uomo d’affari decisamente troppo largo. Oppure il surreale “duetto” dello stesso Byrne con la lampada da terra. E la “ginnastica” ipnotica e sincronizzata di cantante e musicisti.
E’ l’entusiasmante testimonianza di una band in stato di grazia, quasi una sorta di canto del cigno, dato che pochi anni dopo si scioglieranno per volere del frontman, deciso a perseguire altri progetti.
“La grandezza del film – spiega Harrison – sta nel dare al pubblico la sensazione di essere presente al concerto dall’inizio alla fine. È per questo che conserva tuttora un’energia vibrante. Abbiamo sentito che c’era ancora un grande interesse, così abbiamo deciso di restaurarlo e rieditarlo. Non solo per i nostalgici che lo videro a suo tempo, ma per attrarre un nuovo pubblico”.
Intanto sono già disponibili per Warner Music la colonna sonora in edizione deluxe limitata in vinile e la versione 2CD/Blu-ray. Mentre l’8 novembre uscirà un’edizione speciale di “77”, l’album di debutto del gruppo, con rarità, demo, outtakes e brani live inediti.
Inevitabile pensare a una reunion: “Sarebbe bellissimo. Speriamo” ha ribadito Harrison. L’ultima parola spetterà, come sempre, a Byrne, che sinora ha sempre rifiutato, anche di fronte a vagonate di dollari di offerte, bollando l’idea come “un esercizio di nostalgia”.