di Alessia de Antoniis
“Per alcune sarebbe stato meglio morire. C’era una ragazza, non era politicamente impegnata, era solo molto bella. Se la passavano tra di loro, l’avevano stuprata perché non fosse più vergine e non potesse andare in paradiso dopo averla uccisa.” È solo una delle frasi di Reading Lolita in Teheran (Leggere Lolita a Teheran), il nuovo film di Eran Riklis, che racconta le brutalità e le ingiustizie subite dalle donne iraniane sotto il regime islamico.
Presentato in anteprima al Concorso Progressive Cinema alla Festa del Cinema di Roma, il film è tratto dall’omonimo bestseller di Azar Nafisi, edito in Italia da Adelphi. Diretto da Eran Riklis, noto per il suo cinema d’impegno politico e sociale, Reading Lolita in Teheran esplora il potere della letteratura come strumento di resistenza contro l’oppressione.
Il cast stellare è guidato da Golshifteh Farahani, insieme a Zar Amir, Mina Kavani e Bahar Beihaghi. La pellicola, girata in Italia, è una produzione internazionale che vede coinvolte Minerva Pictures e Rosamont con Rai Cinema, e uscirà nelle sale il 21 novembre 2024, distribuita da Film Club Distribuzione.
Prodotto da Marica Stocchi, Gianluca Curti, Moshe Edery, Santo Versace, Michael Sharfshtein ed Eran Riklis, il film racconta una storia con una collocazione spazio-temporale ben definita, ma che sarebbe un errore lasciare nell’Iran della rivoluzione khomeinista.
Eran Riklis, regista israeliano che ha più volte raccontato il Medio Oriente delle storie umane, di nuovo lega il suo nome a un progetto che parla a un mondo globale. Sempre più globale. Parla a un’umanità che, mai come ora, si trova sempre di più sotto lo stesso cielo. E firma un film che parla di speranza. “È un film che parla di donne in Iran come in altre parti del mondo. È un film che parla di libertà“, ha esordito Riklis.
A Roma, lui, israeliano, arriva con tutte donne iraniane. “Sì, siamo tutti qua, insieme, israeliani, iraniani, italiani. Siamo persone. Dobbiamo trascendere questo problema, questa follia, questa violenza. Siamo qui per parlare di pace, anche se può sembrare ingenuo, attraverso la nostra arte, i nostri volti, la nostra onestà. I problemi non sono solo in questa regione, ma nel resto del mondo. Dobbiamo dire basta, tutto questo deve finire”.
Il film parte dalla rivoluzione iraniana del 1979. Lei, quegli anni, li ha vissuti da israeliano. Che ricordo ne ha?
Nel 1977, quattro anni dopo la guerra più sanguinosa mai vissuta, almeno per la mia generazione, Anwar Sadat, il presidente egiziano, è venuto a Gerusalemme. Questo è quello che ha detto: ‘Ogni vita persa in guerra è la vita di un essere umano degno di rispetto. La guerra colpisce tutti, e tutti hanno il diritto di vivere una vita felice, di far parte di una famiglia. I bambini rimangono senza famiglia e quei bambini sono tutti nostri figli, sia che vivano in territorio arabo o in territorio israeliano.’ La risposta del primo ministro israeliano Menachem Begin, che era a capo del governo di destra, fu: ‘Facciamo un giuramento silente: non più guerre, non più versamento di sangue. Non facciamo solo la pace, ma apriamo una strada di amicizia e collaborazione. Possiamo aiutarci, possiamo far sì che le nostre vite e le nostre emozioni siano migliori, più felici e più facili’. Questi due uomini hanno rappresentato ciò che oggi manca. Perché io mi preoccupo per Israele, mi preoccupo per l’Iran, per il Libano, per i palestinesi, mi preoccupo per tante persone in tutto il mondo. Eppure, penso che ci voglia una persona che, in un determinato momento, possa cambiare radicalmente le cose. E questa persona emergerà, prima o poi. Non so chi sarà, non so da dove verrà, ma accadrà.
Insieme al regista è a Roma anche Azar Nafisi, l’autrice del best seller da cui è tratto il film.
Rientrava a Teheran dopo aver vissuto negli Stati Uniti, costretta a subire un cambiamento storico i cui effetti sono presenti ancora oggi. A distanza di anni, quante donne possono riconoscersi nella sua storia, anche in altre parti del mondo?
Quando mi hanno umiliata, dicendomi come dovevo vestirmi, come dovevo parlare, mi sono sempre detta: ‘Senti chi sei, non quello che loro dicono che sei’. E questo è ciò che fa la letteratura per ciascuno di noi.
Dopo aver scritto Leggere Lolita a Teheran, ho capito che a Est, in paesi come la Russia, i reati sono chiari: incarcerano, censurano, torturano e persino sparano alle persone. Nelle democrazie, almeno in teoria, questo non dovrebbe accadere. Ma il vero pericolo nelle democrazie oggi, anche negli Stati Uniti, il Paese che chiamo casa, è il rischio dell’atrofia del sentimento, del sonno delle coscienze. La grande minacce per l’Occidente è l’indifferenza. Ci svegliamo ogni mattina, dimenticando che possiamo dire quello che vogliamo, mentre altre persone muoiono per quello che dicono. E questo è ciò che il film ci fa sentire, ci disturba.
Come ha detto James Baldwin, gli artisti sono qui per disturbare la pace; non per confortarti, ma per svegliarti, per farti porre delle domande. Guardando questo film, ho scoperto parti di me che non conoscevo, cose che forse non mi piacevano. Questo è ciò che un buon film ti provoca: il desiderio di cambiare. Penso che, ora più che mai, sia necessario raccontare questa storia, nonostante tutto ciò che è accaduto in Iran negli ultimi anni.
In Iran abbiamo ancora un regime totalitario che uccide le persone per le strade. Purtroppo, i media parlano solo di questa violenza, ma noi dobbiamo fare qualcosa di diverso. Quando ho lasciato l’Iran, mia madre mi ha detto: ‘Parla di noi, parla delle persone che sono qui.’ Gli iraniani si rifiutano di cedere all’oppressione, loro cantano e ballano davanti al rumore dei proiettili.
C’è una scena del film dove lei indossa il velo e, immediatamente, lo toglie. È una dichiarazione di indipendenza?
Il fatto di non indossare il velo è una dichiarazione aperta di contrasto al regime. Non hanno più paura, e il regime ha mostrato la sua debolezza reagendo con violenza estrema.
Nel film l’attrice iraniana Golshifteh Farahani è Azar Nafisi.
Tutte voi attrici del film siete iraniane, ma nessuna ha mai vissuto in Iran. Questo film è un modo di lottare?
Noi artisti non ci rifugiamo nelle bombe, nelle guerre, ma ci rifugiamo nell’arte e nella cultura. Non ci sono divisioni nell’arte, non esistono differenze di lingua, religione o colore della pelle. I politici tendono a separarci, noi invece ci uniamo. Se loro creano oscurità, noi invece creiamo luce, anche solo con una candela. Noi artisti dobbiamo fare questo, perché ci sono divisioni e il mondo sta andando veramente fuori controllo.
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