di Rock Reynolds
Il suo ultimo libro, Grano. Storie e persone di una guerra vicina (Gemma Edizioni, pagg 342, euro 18), non è recentissimo, essendo stato pubblicato nel 2023, ma la sua lettura è risultata quanto mai attuale, considerati i tempi che stiamo vivendo. Ne ho incontrato l’autore, Giammarco Sicuro, in occasione di un evento patrocinato dall’UNICEF, e la sua travolgente carica di empatia e umanità mi hanno spinto ad approfondirne le tematiche.
Al centro di tutto ci sono le persone, con le loro debolezze e fragilità. Giammarco Sicuro con Grano racconta il sentire della popolazione civile, con un focus di tenerezza sulle frange più deboli, a partire dai bambini, nello scenario infernale di una guerra ancor più insensata del solito, Sempre ammesso che il concetto stesso di guerra possa mai avere un umano senso, Russia e Ucraina sono sorelle che si scannano senza nemmeno sapere perché. Tutta l’umanità di cui Sicuro è capace si concentra non solo nelle sue parole ma pure in alcuni suoi scatti. Nella mostra fotografica legata all’UNICEF, ce n’è una in particolare che racconta più di qualsiasi parola: il primo piano del volto di una ragazzina ucraina sui dodici anni d’età, con i suoi occhi azzurri congelati dalla paura, dallo scoramento, dall’incomprensione. In quella foto “rubata” in un rifugio antiaereo di Kiev c’è un mondo extraterritoriale e c’è l’ingresso forzato, forse anticipato, nelle brutture dell’età adulta.
Che cosa l’ha spinta a diventare giornalista e, soprattutto, a farlo da inviato?
«La curiosità prima di tutto. Una delle caratteristiche principali, a mio avviso, per fare questo mestiere è l’essere curioso e aperto verso il mondo e il prossimo. Fin da piccolo, ho sentito forte questo bisogno di conoscenza e un desiderio intenso di esplorare il mondo, altre culture e persone lontane dalla mia bolla europea e italiana. Quale mestiere migliore se non il giornalista inviato?»
Come ci si muove tra umanità e distacco professionale?
«Un’altra caratteristica che ogni giornalista dovrebbe avere è senz’altro l’empatia. Senza questa propensione verso l’altro, si va poco lontano. Per poter raccontare le storie delle persone ritengo sia fondamentale, prima di tutto, porsi in ascolto di ciò che hanno da dire, mettendosi sul loro stesso piano, con un approccio delicato e rispettoso. Insomma, “il cinico non è adatto a questo mestiere”, dice il grande inviato Ryszard Kapuściński.»
Pochi giorni fa, nei territori occupati della Cisgiordania, l’IDF ha abbattuto la casa di un simpatizzante della causa palestinese. Non le pare una gratuita perpetuazione dell’odio?
«Scene di questo tipo si ripetono quotidianamente nei territori palestinesi e queste informazioni sono facilmente verificabili grazie al lavoro svolto da tante Ong, anche di ebrei, e da giornalisti che documentano le violenze e i soprusi perpetuati da coloni e forze di difesa israeliane. Io stesso mi sono imbattuto un paio di volte in queste demolizioni forzate da parte di gente armata nei confronti di contadini arabi “colpevoli” soltanto di trovarsi dove non dovrebbero stare, almeno secondo chi occupa quelle terre. Quindi la risposta è sì, si tratta della perpetuazione di un odio non giustificabile dal massacro del 7 ottobre e che è stato più volte denunciato anche dalle Nazioni Unite e all’Unione Europea.»
Si percepisce una certa diffidenza nei confronti dell’ONU, tacciato di sprechi, corruzione e inefficienza? Da testimonial dell’UNICEF, come risponde a tale critica?
«Le Nazioni Unite non sono affatto un’organizzazione perfetta, anzi. Purtroppo rispecchiano il mondo in cui viviamo con tutte le contraddizioni e i contrasti tra paesi e popoli. Quell’assemblea mondiale, però, rappresenta ancora oggi l’unica occasione che abbiamo per far dialogare pezzi di mondi sempre più lontani. Le organizzazioni sovranazionali – e penso anche al Tribunale penale internazionale ed altri enti comuni – sono un qualcosa di prezioso che andrebbe migliorato ma anche difeso perché è l’unica speranza che abbiamo per costruire un futuro di pace. Tornando alla domanda, sicuramente le agenzie delle Nazioni Unite, per esempio l’Unicef, riflettono questi difetti, ma allo stesso tempo svolgono un lavoro fondamentale che nessun altro, in questo momento, può portare avanti a questo livello. Il “marchio” delle Nazioni Unite è ancora garanzia di autorevolezza e neutralità in moltissimi scenari e questo consente all’agenzia di operare in contesti estremi e complicatissimi, dove molti altri non riescono ad arrivare. Penso ad Afghanistan, Sudan, eccetera.»
In cosa si sostanzia il suo impegno al fianco dell’UNICEF?
«Il mio impegno è assolutamente gratuito e rivolto alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sull’importanza di donare e di supportare i progetti di Unicef in giro per il mondo. Il valore aggiunto che posso portare io alla causa è poter raccontare le storie di chi ogni giorno usufruisce dell’aiuto dell’agenzia. Tutte testimonianze che ho raccolto sul campo, nei contesti più difficili, e che posso riportare con dettagli, prove e conferme. Questo credo che sia utilissimo per chi, da casa, ha intenzione di sostenere i progetti umanitari. Ci tengo anche a sottolineare che il mio lavoro di sensibilizzazione non si ferma a Unicef ma va in direzione di tutte le Organizzazioni umanitarie e Ong che ho avuto la fortuna di incrociare sul mio percorso, da Emergency a Medici Senza Frontiere, e poi naturalmente anche a realtà più piccole come Soleterre, Cospe e tante altre.»
Da uomo e cronista, cosa si aspetta da noi occidentali la gente comune delle zone in cui imperversa la guerra tra Ucraina e Russa?
«Credo che la gente comune senta forte il bisogno di pace. Questo è un messaggio che mi sento di voler dare perché sostenuto da tante storie raccolte in giro per il mondo. Sono la propaganda e la diffusione di fake news ad alimentare, da sempre, odio e sopraffazione dell’uno verso l’altro.»
Grano è un reportage di guerra. Cosa si eri prefissato di realizzare, scrivendolo?
«L’idea di scrivere Grano è nata successivamente alla mia esperienza in Ucraina. Quella guerra ha colto tutti di sorpresa e i primi mesi sono stati una sorta di apnea durante la quale mi sono totalmente immerso in quell’esperienza drammatica ma allo stesso tempo molto formativa e necessaria per ogni inviato, a mio avviso. Soltanto dopo qualche mese, e durante una pausa dal fronte, ho sentito il bisogno di mettere in ordine appunti e idee per poter scrivere un libro che raccontasse la storia di un giornalista che voleva fare l’inviato di pace e che si è ritrovato suo malgrado a raccontare un vero conflitto. Non era nei miei programmi di vita, sono sincero, e quindi il racconto voleva essere proprio questo: spiegare la guerra dal punto di vista di qualcuno che si ritrova sotto il tiro dei missili, con tutta la sua umanità e persino con sentimenti semplici come la paura.»
Ha fatto tante foto nei suoi viaggi, tra cui diverse a ragazzini che lavorano in una specie di opificio tessile in Bangladesh. Può sussistere un equilibrio virtuoso tra le condizioni lavorative imposte da aziende multinazionali interessate all’abbattimento dei costi e il fatto che, se tali aziende non facessero ricorso a quel tipo di mano d’opera, in certi paesi non ci sarebbe nemmeno quella minima distribuzione di ricchezza?
«Solleva un punto centrale al quale io stesso non so dare una risposta. Il modello capitalistico occidentale del settore tessile (ma non solo, visto che anche Cina e India contribuiscono a questa corsa folle alla produzione) sta creando disastri enormi dal punto di vista sociale, ambientale e di sfruttamento eccessivo in molti paesi periferici del pianeta. Allo stesso tempo, però, garantisce lavoro dove lavoro non ce n’era. Seppur lavoro sottopagato e sfruttato. Dove sarebbero tutti questi lavoratori se non ci fossero le fabbriche tessili? Un pensiero che mi è nato quando ho visitato un bordello del Bangladesh, trovando tante bambine costrette a lavorarci. A quel punto, i minori impiegati a cucire per tutto il giorno mi sono sembrati quasi dei privilegiati. Che paradosso! Punti di vista diversi, insomma. Sicuramente questo modello va migliorato e va fatto subito. E i bambini, tutti, devono smettere immediatamente di lavorare. Questo è un obbligo morale che dovrebbe investire ogni multinazionale operante in certi paesi.»
In Italia, si dibatte di ius solis, ius scholae, eccetera. Non le pare che il concetto stesso di cittadinanza sia vetusto?
«Lo sta dicendo ad una persona che ha girato talmente tanti paesi e incontrato così tante persone straordinarie in giro per il mondo che ogni discorso di lingue, etnia, religione, nazione e distinzione mi risulta buffa e anacronistica. Per me siamo tutti essere umani e a tutti dovrebbe essere garantito un futuro equo. Certo, rivendico la mia identità di italiano e ne sono anche orgoglioso, ma credo che questo concetto vada finalmente ampliato e diversificato, abbracciando culture diverse che, semmai, arricchiscono più che impoverire. Ce lo dice la storia millenaria del nostro stesso paese.»
Le capita ma di stizzirsi di fronte alla finzione della narrazione occidentale?
«Questa propensione a distinguere sempre tutto tra bene e male, tra buono e cattivo è assolutamente fuorviante. Nel mondo niente è mia bianco o nero: esistono le sfumature ed è ciò che rende l’umanità così straordinaria. Non voglio tirare in ballo colleghi o testate specifiche, ma spesso il modo di fare giornalismo in Italia risponde più a questioni di tifo contrapposto, quando servirebbe invece un’informazione che metta finalmente in risalto i punti in comune e ciò che ci unisce come persone piuttosto che esaltare lotte messianiche o prese di posizione sfocianti in odio e conflitti.»