La seconda giornata della 38a edizione del Festival di Todi è trascorsa con la consueta offerta di qualità, quest’anno anche grazie alla fruizione di luoghi storici cittadini come la veneranda Torre del Palazzo dei Priori, restaurata con acuta essenzialità dall’architetto Antonio Corradi e aperta alla fruizione del pubblico. O ancora, la “Casa dipinta”, un’antica abitazione già dimora degli artisti Brian O’Doherty e Barbara Novak, autentica opera immersiva affrescata nei suoi tre piani da un ciclo di pitture ispirate all’antico alfabeto irlandese Ogham.
Nell’ambito dell’offerta artistica, la sera del 25 agosto ha invece debuttato al Teatro comunale la pièce Cuore puro. Favola nera per camorra e pallone, tratta dal romanzo di Roberto Saviano (riscrittura di uno dei suoi primi racconti) e diretta da Mario Gelardi, che ne ha anche curato la riduzione drammaturgica, con l’ausilio delle musiche originali di Mokadelic, le luci di Loic François Hamelin, i costumi di Rachele Nuzzo.
Un trio di adolescenti innamorati del pallone, una madre, un camorrista: queste le scarne dramatis personae, che agiscono in un allestimento altrettanto asciutto (curato da Vincenzo Leone): la strada di un quartiere periferico di Napoli, alcune panche, un’intelaiatura metallica a delimitare claustrofobicamente il palco. Si narra l’amicizia cameratesca di tre ragazzi (interpretati con partecipata verve da Vito Amato, Francesco Ferrante, Emanuele Cangiano), con la passione sconfinata per il gioco del calcio, le prime esperienze erotiche, i sogni di successo e di riscatto da una sordida vita di emarginazione, e infine l’irruzione della realtà nella persona di un sedicente procuratore sportivo legato alla camorra (un convincente Carlo Di Maro) che offre denaro e palloni con cui giocare purché fungano da pali, a copertura di attività illecite. Gli adolescenti, pur combattuti, accettano, convinti dalle subdole lusinghe di una vita migliore e dalla prospettiva di soldi facili, unite alle minacce del malvivente. La madre di uno di loro (la brava Antonella Romano), consapevole del pericolo, cerca invano di mettere in guardia il figlio: è lei ad aprire lo spettacolo, voce narrante che fa da guida allo spettatore, sorta di coro greco che trae la morale dall’azione. La domanda che si impone è: bastano il talento e la propulsione creatrice del sogno a superare una condizione di profondo degrado sociale? I ragazzi seguiranno il loro destino, con un clamoroso colpo di scena finale, dove i simboli congiunti del pallone e del cuore irrompono e quasi letteralmente esplodono.
Forte della consolidata collaborazione con lo scrittore, Gelardi ha saputo trarre la giusta forza visiva dal romanzo di Saviano, narratore sempre sensibile all’impatto devastante della criminalità in una realtà socialmente malata, allestendo uno spettacolo drammaturgicamente compatto, duro come il mondo che rappresenta eppure venato di sottile poesia, quella dei sogni palpitanti dell’adolescenza, della fratellanza amicale di tante figure epiche, qui ridotte a giovani in lotta perenne con il lacerante processo di maturazione in una squallida realtà che non offre sbocchi accettabili.
Come spesso negli allestimenti di Gelardi, la rappresentazione spinge sulla fisicità debordante degli interpreti, una plastica energia che riempie la scena al pari dei palloni che vi rotolano, liberi, loro sì, di muoversi e sfuggire alle rigide gabbie sociali imposte da un potere strisciante e pervasivo. S’avvertono dietro questo dramma la veracità dell’anima partenopea, gli echi del candore umano di Eduardo, di quella “nuttata” che sembra non passare mai, ma anche la virulenta carica di denuncia di un Ken Loach, pietra emotiva scagliata contro un pubblico spesso anestetizzato da dolciastri racconti intimisti impermeabili alle tragedie del mondo. Un ibrido intelligente che, com’è nella millenaria tradizione del teatro, spinge alla riflessione, aprendo uno squarcio su realtà sovente ignorate e rimosse.