Le signore omicidi nella perfida Albione

Niente sesso, siamo inglesi, si sentiva dire un tempo. Le usanze cambiano e, di questo passo, il mito del maschio latino e delle italiane focose potrebbe a sua volta sgretolarsi. Senza troppi rimpianti.

Le signore omicidi nella perfida Albione
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30 Giugno 2024 - 23.52


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di Rock Reynolds

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Niente sesso, siamo inglesi, si sentiva dire un tempo. Le usanze cambiano e, di questo passo, il mito del maschio latino e delle italiane focose potrebbe a sua volta sgretolarsi. Senza troppi rimpianti.

A restare assiomatica, invece, è la passione britannica per l’intrigo, sul piano internazionale tanto quanto familiare. E, naturalmente, non v’è intrigo che si rispetti senza un’indagine volta a dipanarne almeno in parte la matassa. Meglio ancora se condita da una o più morti violente.

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Oggi, il giallo – il noir, se preferite – è un genere abbondantemente esplorato anche dagli autori italiani, ma chiunque vi si sia accostato quando ancora era appannaggio di pochi autori, soprattutto stranieri, non ha potuto fare a meno di guardare a nord, in Inghilterra, dove certo non mancavano punti di riferimento ineludibili.

Ed è stato proprio in Inghilterra che a questo genere si sono accostate con enorme successo numerose scrittrici, sfatando definitivamente il falso mito che la creazione di storie fosche non potesse che essere roba per il sesso forte. Naturalmente, Sir Arthur Conan Doyle, il creatore di Sherlock Holmes, resta l’ideale fondatore del noir moderno, ma il giallo inglese classico non sarebbe quello che è se non fosse apparsa sulle scene una certa Agatha Christie, i cui due personaggi principali – Hercule Poirot e Miss Marple – sono a loro volta divenuti archetipi del genere.

La cosa che, in questa sede, risulta più interessante è che l’esperienza artisticamente fortunata della Christie ha infuso grande coraggio in molte scrittrici britanniche, aiutandole a farsi strada in una società fortemente maschilista e a vincere resistenze di genere che, allo stato attuale, fanno sorridere.

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Perché questo lungo preambolo? Perché il romanzo davanti a cui ci troviamo oggi è un’ottima storia scritta da una giallista inglese, Joy Ellis, che si è fatta spazio con meriti indiscutibili in un mercato saturo di storie criminali.

La sua ultima prova, Un omicidio nel silenzio (PIEMME, traduzione di Lucia Visonà, pagg 346, euro 19,90), sembra collocarsi nel solco di una tradizione lunga e fortunata, di comprovata appetibilità popolare. Attenzione, però: l’autrice non si limita a ripercorrere pedantemente un canovaccio abusato. Joy Ellis lo impreziosisce di qualche piccola ma interessante novità e, soprattutto, lo fa con voce personale, distinguibile. Non cosa da poco.

Il raccapricciante omicidio di una ragazza nelle campagne inglesi riporta la memoria di una piccola comunità di provincia a una successione di delitti attribuiti a una serial killer diversi anni prima. In realtà, non ci sono molte indicazioni del fatto che possano esserci dei legami, anche perché la spietata donna è morta da tempo. A mescolare le carte e a rendere più inquietante la situazione sono le parole di un giovane che sostiene di essere il figlio naturale di quell’assassina e di averne ereditato il sangue cattivo. Peccato che quel giovane soffra di vuoti di memoria e manifesti tratti psicotici.

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Le indagini saranno condotte da un’equipe di poliziotti molto affiatata guidata dall’ispettore Rowan Jackson, un vero gentiluomo e un fine studioso dell’animo umano che cerca di creare uno spirito di squadra tra i suoi uomini, il detective Max Cohen e il detective Charlie Button in primis. Ma anche tra le sue donne, come la sergente Marie Evans e la misteriosa Orla Cracken, esperta di tecnologie informatiche che se ne sta costantemente rintanata nel suo bugigattolo. L’idea stessa che tra i membri di una squadra di polizia possano e debbano esserci amicizia e complicità conviviale non è forse nuova, ma la Ellis ne fa un’arma vincente.

Senza entrare in dettagli che rischierebbero di guastare il gusto per la sorpresa e la suspense – in realtà intensa, come dovrebbe essere in ogni romanzo noir – basti dire che le pagine scorrono piacevolmente e che l’atmosfera creata dall’autrice si mantiene sapientemente in equilibrio tra la giusta dose di cupezza e momenti che alleggeriscono la tensione. Inutile tentare di accostarla ad altre autrici di genere che l’hanno preceduta. Suppongo sia più autosuggestione che altro, ma mi vengono in mente certe pagine dei noir di Val McDermid, autrice scozzese paladina della causa della comunità LGBTQ, proprio per l’inserimento di quando in quando di elementi che vi fanno riferimento. Joy Ellis è sposata con una donna (peraltro una poliziotta in pensione), ma, a differenza di Val McDermid, le sue storie sono meno imperniate sul tema dell’identità di genere e sulle relazioni omosessuali.

Come dicevo, però, la tradizione britannica delle scrittrici noir è di per sé un pilastro della scrittura moderna. Non tutti in Italia conoscono Enid Blyton, autrice di romanzi per bambini e giovani adolescenti, una vera e propria leggenda vissuta tra il 1897 e il 1968. I quasi 400 milioni di copie (c’è chi dice addirittura 600) venduti in tutto il mondo la dicono lunga: le storie della “Banda dei Cinque, un gruppetto di ragazzini che si improvvisano detective e si cacciano nei guai, hanno fatto della Blyton un caso editoriale incredibile. Della sua quasi coetanea Agatha Christie si è detto: ormai è un classico della letteratura d’Oltremanica. Di Val McDermid si può consigliare 1979, uscito da poco in italiano per HarperCollins Italia, uno splendido romanzo sociale a tinte noir. Ovviamente, ci sono autrici più classiche che hanno segnato un’epoca, a partire da Dorothy L. Sayers con il suo personaggio più celebre, Lord Peter Wimsey, che ha trovato un posto di prim’ordine accanto ai grandi detective della storia del giallo. La corona di regina del genere se la sono spartita nel tempo P. D. James, madre dell’ispettore Adam Dalgliesh, Ruth Rendell (che talvolta scriveva sotto lo pseudonimo di Barbara Vine per indicare ai lettori che un certo tipo di romanzo sarebbe stato diverso da quelli pubblicati a suo nome) e Anne Perry, la cui scelta di ambientare le sue storie in epoca vittoriana sottendeva non solo la volontà di imprimere una rotta classica alla sua scrittura ma pure di esprimere una velata critica della società perbenista inglese. L’ultima, in ordine di tempo, a lasciarci è stata proprio la Perry, poco più di un anno fa. Ecco che Joy Ellis si candida a salire su quel trono lasciato vacante. La passione tra le sue righe è palpabile e il suo successo commerciale lo testimonia.

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