di Antonio Salvati
In un tempo e in un mondo complesso e segnato da profondo individualismo, dalla povertà, sempre più diffusa, e dallo spostamento della vita sul digitale, non solo per gli adolescenti, ma anche per la politica, sempre più distaccata dalla cultura, Andrea Riccardi rimane un punto di riferimento non soltanto nella Chiesa. Con il suo ultimo volume Rigenerare il futuro. Dall’io al noi, (Scholé 2024 pp. 51 € 10,00) ci offre alcuni spunti politici e culturali con i quali riflettere. Suggeriti da Papa Francesco del quale Riccardi è un autentico interprete.
Oggi spesso siamo prigionieri del presente, come direbbe Giuseppe De Rita. Spesso un presente circondato da muri che dicono che il futuro non è possibile o troppo minaccioso. Bisogna allungare il presente, difenderlo. Il nostro è spesso l’orizzonte dell’eterno presente. Davanti a un mondo molto frammentato, come quello odierno, il problema oggi è la mancanza di visioni. Lo sosteneva Karol Wojtyla, quand’era arcivescovo di Cracovia, negli anni opprimenti sotto il regime comunista e la storia del suo paese sembrava priva di prospettive di cambiamento. E scriveva: «io credo che l’uomo soffra soprattutto per mancanza di visione». Ciò spiega il nostro spaesamento e le difficoltà a confrontarci con la realtà, sia in termini culturali che politici. In Europa oggi soffriamo – spiega Riccardi – una mancanza di visione, anche perché la nostra politica ha clamorosamente divorziato dalla cultura, alleandosi prima con la televisione e poi con il mondo dei social. Del resto «un mondo fatto di tanti “io” vive una politica diversa, fatta di polarizzazioni estreme ed emotive, di rifiuto dell’impegno civico oppure di ricerca di leader rassicuranti in senso populista».
Il rabbino inglese Jonathan Sacks, recentemente scomparso, ha parlato di un cambiamento climatico-culturale, ovvero il passaggio dal “noi” all’”io”. A partire dalla fine del secolo scorso, abbiamo vissuto un esodo profondo, spesso impercettibile e comunque drammatico, verso il mondo dell’”io” che ha generato una nuova visione dell’uomo e della donna come individui isolati, immessi in un vuoto relazionale, quasi si trattasse di una condizione di normalità. In questo senso, Riccardi avverte che lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo è immerso in un’epidemia di solitudine. Fino a qualche decennio fa la nostra società era solidamente basata sulla famiglia e abitata da una vasta rete di relazioni prodotta dalla politica, dai sindacati e dai partiti, ma anche dalle associazioni o dalle comunità religiose. Le reti in un certo senso mappavano la nostra società. Era un mondo che produceva cultura, visione delle cose, interpretazioni, prospettive, miti. Potremmo dire che produceva “culture popolari”. Non che tutto andasse bene, intendiamoci. Ma eravamo abituati ad una “società densa”, direbbe Riccardi, percorsa da movimenti che in qualche modo offrivano spazi di solidarietà, rappresentavano un destino comune e proiettavano verso un futuro. Oggi tutto questo – avverte Riccardi – è molto infragilito. Lo psicanalista Luigi Zoja diversi anni fa ha sviluppato un’analisi ragguardevole su tali temi, quelli dei legami, in un piccolo libro, significativamente intitolato La morte del prossimo. Il prossimo si è tremendamente allargato come numero per molti di noi con l’ampliamento degli orizzonti globali – egli dice-, ma allo stesso tempo si sono indebolite le relazioni stabili e le sue figure si sono sfumate. La morte del prossimo è anche la fine dei contorni comunitari, certo sempre cangianti, che hanno accompagnato l’esistenza, facendo da sfondo, costituendo sovente una rete. Ma oggi si sono dissolte le reti tradizionali e rurali con l’inurbamento, ma soprattutto quelle frutto del volontarismo politico, sociale e religioso si sono smorzate. Siamo di fronte – spiega Mattia Ferraresi, attento osservatore della società – a «qualcosa di più complicato e oscuro di una propensione sociale: è lo stato esistenziale dell’uomo contemporaneo», aggiungendo che il nostro mondo è quello «delle pubblicità profilate, dei pasti monoporzione, del selfie, della condizione di single come stato sommamente desiderabile». Un mondo, insomma, dove a regnare è la solitudine. Lo slittamento dal “noi” all’”io” ha portato a una desertificazione della vita che persiste persino nei momenti difficili dell’esistenza. La fragilità, la vecchiaia, l’impoverimento, sottolinea Riccardi, mettono in luce come in queste condizioni l’”io” non basta. Cosa significa – si chiede Riccardi – per esempio essere bambini o adolescenti in un vuoto di relazioni. Nel linguaggio burocratico, il ragazzo emigrato senza la sua famiglia – una realtà che sta diventando sempre più comune – viene chiamato con una espressione che sembra quasi una metafora: “minore non accompagnato”. Anche se otto milioni e mezzo di italiani vivono soli e un terzo dei nuclei familiari è composto da una sola persona, la domanda di uscire da una condizione di solitudine che ormai viene avvertita come normale, non si è però spenta. Infatti, in questa condizione “normale” «si sente un grido di dolore, forse più di uno. Innanzitutto quello degli anziani, spesso provenienti da una storia di famiglie numerose, che non ce la fanno a vivere soli: si pensi all’emblematica vicenda delle Rsa, che durante la pandemia di Covid ha messo in luce il dramma dell’abbandono con migliaia di anziani deceduti nella più totale solitudine». Il crescente disagio dei più giovani, invece, difficilmente diventa grido, «perché spesso le loro parole e i loro sentimenti vengono oscurati dal protagonismo di una generazione di adulti che non vuole invecchiare e lasciare spazio ad altri». La nostra è una società che non solo non fa posto ai giovani ma neppure ha un futuro da proporre loro. Walter Brueggemann, teologo nordamericano, osserva invece che la realizzazione di un sogno non può essere mai unigenerazionale. Un sogno per essere tale deve appartenere a più generazioni. L’Italia della ricostruzione dopo la Seconda guerra mondiale, per esempio, era animata da un progetto che univa più generazioni in vista del futuro.
Nel volume, oltre ad analizzare la questione della solitudine, Riccardi ribadisce la necessità della pace come mezzo risolutivo e necessario, come da sempre ha fatto insieme alla Comunità di Sant’Egidio, «poiché la guerra è il principale ostacolo alla fraternità». C’è fame di soluzioni globali sostiene Riccardi, ricordando le parole del cardinal Martini. È a partire dalla lettura dell’enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti che emerge l’esigenza di un sogno per il futuro, di un futuro di pace, di un processo di affratellamento, di amicizia sociale. L’enciclica Fratelli tutti, una proposta maturata nel tempo della pandemia, rappresenta anche un forte grido a favore della pace. Il rischio della stagione in cui ci stiamo inoltrando è – come aveva già sottolineato Riccardi nel volume Il grido della pace (Milano, San Paolo, 2023, pp. 240, € 18,00) – la riabilitazione dello strumento della guerra e l’acquiescenza della coscienza e della politica internazionale a questo fenomeno. La guerra a tanti preoccupa di meno. Fare la guerra non suona così scandaloso o innaturale, per buona parte dell’opinione pubblica, aveva già sostenuto Riccardi in un volume uscito qualche anno fa, La forza disarmata della pace (Milano, Jaca BooK, 2017, pp. 80, € 10,00). Si pensa che la guerra sia questione di altri, anche se poi gli altri non sono poi così lontani. Attraverso un’articolata riflessione Riccardi invita a raccogliere le tante richieste e grida di pace. Già ascoltare il grido di pace mette in movimento le persone e le coscienze, fa maturare idee, sentimenti e speranze. ««Non siamo consegnati a un destino ignoto, su cui non si può esercitare nessuna influenza. Si può ascoltare, comprendere, discutere: i processi messi in moto, talvolta, travolgono le resistenze e mettono in atto movimenti che vanno ben aldilà dei singoli. C’è anche una forza della ragionevolezza della pace, risposta all’anelito di tanti: molte volte è un’energia sottovalutata». La storia non è uno spartito già scritto. La storia è piena di sorprese. E la più grande sorpresa è la pace. Il XXI secolo non può e non deve essere destinato alla guerra. E la fame di soluzioni globali non la sentiva soltanto il cardinal Martini. Questa fame ha bisogno di nuovi compagni di strada: sorelle, fratelli ed amici. È l’invito di Riccardi. Alla portata e nell’interesse di tutti.