di Antonio Salvati
Maurizio Ferraris e Guido Saracco, entrambi cattedratici, l’uno filosofo o umanista e l’altro tecnonologo, credono fermamente nell’alleanza tra filosofia e tecnologia. Lo fanno partendo da un giudizio positivo sulla tecnologia e dalla consapevolezza, innegabile, che la capacità tecnologica appartiene all’umanità sin dalle sue origini. E da quella che la tecnologia possiede la capacità di conservare e moltiplicare il valore dei suoi beni materiali e culturali a beneficio delle generazioni future. È l’idea che ispira il loro libro Tecnosofia. Tecnologia e umanesimo per una scienza nuova (Mondadori 2023 pp. 192, € 20).
Le tecnologie non devono essere utilizzate per soddisfare solo logiche di profitto, ma risolvere i problemi concreti. Se tecnologia e umanesimo sapranno interagire, l’umanità crescerà positivamente percorrendo la strada del progresso. Il dialogo della coppia tecnologo-umanista si sviluppa partendo attorno alla paura della tecnologia. Tante piccole o grandi innovazioni nell’ambito della tecnologia digitale e delle sue applicazioni hanno suscitato il timore che la fine della specie umana sia sempre più vicina. Del resto, lo sviluppo tecnologico continuamente testa il nostro senso comune, ossia un sentimento largamente condiviso rispetto a ciò che si può considerare “normale” o “naturale” nelle nostre esistenze.
La tecnologia, inoltre, porta con sé una serie di problematiche, e quindi di paure, che hanno sempre più un impatto sugli individui e sulle collettività come il cambiamento climatico, la demografia, le trasformazioni del mondo del lavoro), il conflitto tra democrazia e totalitarismi. In tutti questi ambiti dell’esperienza umana, segnate da epocali cambiamenti e conseguenti forti incertezze, la tecnologia ha avuto e continua ad avere un ruolo determinante.
L’era digitale è iniziata solo nel 2002. Da allora, ci informano gli autori, «la capacità di stoccaggio digitale ha ecceduto quella analogica. Oggi oltre il 95 per cento delle informazioni sono digitali, e ogni anno produciamo una quantità di dati superiore a quella accumulata in precedenza dall’inizio della nostra storia». Oggi, è sostanzialmente impossibile non lasciare tracce in Internet. E qui occorre precisare che il web è fondamentalmente registrazione. Il web è radicalmente diverso da qualsiasi altro strumento di informazione classico: registra prima di informare. E conserva un archivio che tiene traccia di tutti i nostri contatti con il web. Ogni nostro contatto con il web è registrato. In altri termini, mentre noi guardiamo il web il web soprattutto guarda noi. Nell’era analogica ascoltavamo la radio senza essa sapesse che noi l’ascoltavamo. Il digitale codifica il messaggio prima di trasmetterlo. Con l’Internet delle cose, fatto di sensori e telecamere praticamente ovunque, si producono masse immense di dati che generano motori di classificazione. In Cina sono già presenti decine di milioni di telecamere che, abbinate ad algoritmi di riconoscimento delle persone (riconoscimento facciale, identificazione per tramite della tracciabilità seriale degli spostamenti, dei comportamenti di acquisto, ecc.), consentono di individuare praticamente chiunque in città, recapitare ed esigere il pagamento immediato di multe, e … sorvegliare. Allo stesso modo sono attivi algoritmi «che non semplicemente ci riconoscono ma comprendono il nostro stato d’animo (rabbia, paura, disgusto, disprezzo, felicità, indifferenza, tristezza, sorpresa), nell’attesa che cogliendo i campi elettromagnetici del nostro cervello non si riesca a capire addirittura che cosa stiamo pensando».
Quindi le nostre interazioni con il web producono dati. In questo senso siamo importanti per il web perché tutto quello che vi è presente lo inseriamo noi, attraverso i nostri gusti, interessi o bisogni vitali. E quello che noi chiamiamo IA – e pensiamo che sia chissà quale cervellone- altro non è la registrazione mobilitazione degli umani sul web finalizzata a scopi di automazione o scopi di distribuzione. Automatizzare significa abilitare una macchina a comportarsi come un umano copiando i gesti degli umani. Tanti compiti che noi compiamo articolatamente. In tal senso, meglio comprendiamo lo spettro della postverità, fenomeno reale e importante, a cui il Web ha però solo conferito un potenziamento tecnico. Infatti, il Web «esiste solo perché ci sono umani, e una delle proprietà definitorie dell’umano è il possesso del linguaggio, ossia di quella tecnica che, come diceva Talleyrand, ci è stata data per nascondere le nostre idee». Inoltre, anche la persona più verace potrebbe, in buona fede, sbagliare di grosso. Il che significa che nello spazio dell’informazione la possibilità di trovare delle notizie false o imprecise è molto più alta di quella di trovare delle notizie vere. Questo non da oggi, ma da sempre. La falsificazione è una costante della storia, come attesta un piccolo volume di Umberto Eco uscito qualche anno fa, Costruire il nemico. Non abbiamo alcun serio motivo per pensare che nelle caverne la percentuale di bugiardi e di imbecilli fosse inferiore all’attuale, e abbiamo la certezza che tutte le nozioni intorno alla spiegazione scientifica del mondo fossero fake news.
Venendo a tempi più civilizzati, «Bacone lamentava che le biblioteche contenessero più menzogne che verità e, di nuovo, se il progresso del sapere ha aumentato le cognizioni vere, la crescita della popolazione mondiale, dell’alfabetizzazione e della possibilità di espressione ha accresciuto fenomenologicamente il numero dei bugiardi, dei millantatori e dei semplici imbecilli». Non si è mai avuto così tanto “reale” in quella che, erroneamente, si chiama “età del virtuale”. Mai come nell’età dell’intelligenza artificiale – spiegano gli autori – si è compreso quanto «l’intelligenza naturale sia imprescindibile per il conferimento di scopi e significati. E questo non perché l’intelligenza naturale possegga uno spirito che trascende il calcolo delle macchine, ma perché è dotata di un corpo, di un organismo con le sue urgenze e la sua mortalità. Un computer non ha un corpo, non può morire, può essere riparato e ricominciare a funzionare. Non subisce la pressione della fame, della prospettiva di una fine irreversibile; dunque, non potrà mai coltivare sogni di potenza per rimediare alla propria paura».
Sul piano della salute, innovazioni tecnologiche continue (nuovi farmaci, dispositivi medici, terapie) allungano e migliorano la vita, seppur richiedono costi elevati. Secondo il pacchetto sanitario indispensabile redatto dalle Nazioni Unite (assistenza prenatale, vaccinazioni e terapie contro le malattie infettive, zanzariere contro la malaria, terapie per le patologie cardiovascolari e accesso a ospedali, personale medico e farmaci) occorre il 5 per cento del PIL più un minimo di 86 dollari a persona. È urgente formare un maggior numero di operatori a livello globale, individuare soluzioni tecnologiche atte a renderli più produttivi, come ad esempio la telemedicina. Con il progressivo invecchiamento e la crescente aspettativa di ricevere una assistenza migliore con nuove tecnologie che costano relativamente care, la spesa sanitaria sarà destinata ad aumentare sensibilmente se non si faranno passi da gigante con le tecnologie di assistenza in remoto e diagnosi o cura a distanza.
Questo condurrebbe – soprattutto nei Paesi in via di sviluppo (India, Paesi africani, ecc.) – rapidamente a un notevole passo in avanti. Le tecnologie digitali consentono ai pazienti e ai medici di accedere con efficacia e rapidità alle cartelle cliniche, «l’intelligenza artificiale abbinata a database di riferimento potrebbe coadiuvare le diagnosi». In tal modo i medici potranno guadagnare tempo per le indispensabili interazioni umane coi pazienti. L’Internet «delle cose potrebbe garantire la rilevazione domestica dello stato di salute delle persone senza necessità di trasferimenti agli ospedali o agli studi medici, oppure controllare che i pazienti in cura assumano effettivamente le medicine prescritte e non le sprechino come accade nel 30-50 per cento dei pazienti affetti da malattie di lunga durata». A riguardo occorre trovare il modo di tutelare da un lato la privacy dei pazienti e dall’altro l’alimentazione di grandi database che crescendo possono aumentare la loro utilità sistemica.
Pertanto paure comprensibili per uno scenario futuro inarrestabile in cui l’evoluzione della specie umana non contorni chiari. Ma, come dice Ferraris, il corpo è l’elemento che segna l’irriducibile differenza tra l’essere umano e la macchina e «mai come nell’età dell’intelligenza artificiale si è compreso quanto l’intelligenza naturale sia imprescindibile per il conferimento di scopi e significati. E questo non perché l’intelligenza naturale possegga uno spirito che trascende il calcolo delle macchine, ma perché è dotata di un corpo, di un organismo con le sue urgenze e la sua mortalità».