di Marialaura Baldino
Si sa da sempre che i grandi palcoscenici spesso diventano – giustamente – pulpiti dai quali poter veicolare importanti messaggi, anche politici, oltre a quelli che già la musica, il cinema o il teatro portano con sé.
È successo già a febbraio, al Festival di Sanremo, dove molti artisti in gara si sono espressi in merito alla guerra che sta dilaniando la Palestina, dal «Cessate il fuoco» di Dargen D’Amico allo «Stop al genocidio» di Ghali.
‘Sfruttare’ la visibilità di un palco per portare all’attenzione del pubblico grande messaggi importanti fa parte del gioco.
La polemica, negli ultimi giorni si è spostata sull’edizione 2024 dell’Eurovision, anche se non è la prima volta che il song contest interazionale si trova al centro di proteste e controversie politiche che hanno interessato i paesi partecipanti.
La questione sollevata riguardava la partecipazione della cantate israeliana e della decisione degli organizzatori di non escluderla dalla competizione sulla base delle azioni militari che Israele sta compiendo nella Striscia di Gaza e che hanno già portato alla morte di quasi 35mila persone.
Ad inizio anno, quasi 1500 tra artisti, musicisti, attori e operatori del settore musicale internazionale avevano chiesto l’esclusione dello Stato dalla competizione. “Non è in accordo con i nostri valori che ad un paese che commette crimini di guerra e continua un’occupazione militare venga dato un palco pubblico per lucidare la propria immagine in nome della musica”, è quanto si legge nella lettera aperta redatta da artisti di Finlandia e Islanda.
Molti si sarebbero aspettati la stessa linea seguita nel 2022, quando l’ente organizzatore del contest, l’EBU (Unione Europea di Radiodiffusione, n.d.r.), ha deciso di escludere la Russia dalla competizione a seguito dell’invasione dell’Ucraina.
Maggiori contestazioni sono arrivate quando, a febbraio, Israele ha presentato la canzone che avrebbe portato in gara la cantante Eden Golan, ‘’October Rain’’, piena di chiari riferimenti all’attacco di Hamas avvenuto il 7 ottobre dello scorso anno. Ma l’Ebu ha chiesto non solo la modifica del titolo, ora ‘’Hurricane’’, ma anche di eliminare tutti i riferimenti presenti all’interno della canzone.
Lo stesso ente ha però più volte impedito o contestato i riferimenti alla Palestina sul palco dell’Eurovision, vietando la presenza delle bandiere non appartenenti ai paesi in gara.
È successo al cantante Eric Saade, ospite della semifinale, criticato dall’Ebu per aver cantato con una Kefiah legata al polso. O alla musicista e cantante Bambie Thug, in gara per l’Irlanda, alla quale è stato chiesto di eliminare dalla sua canzone la frase: ‘’Cessate il fuoco e libertà’’.
Intanto, le proteste contro la partecipazione di Israele all’Eurovision sono aumentate, soprattutto durante questi ultimi giorni di festival. A Malmö (città che ha ospitato l’Eurovision) e Stoccolma, migliaia di manifestanti sono scesi in piazza in segno di protesta e a supporto dei palestinesi, con lo slogan: Dal fiume al mare, la Palestina sarà libera!.
La polizia svedese è stata avvertita che attivisti pro-Palestina, tra i quali figurava anche Greta Thunberg avrebbero tentato di entrare nell’arena per una “provocazione” durante l’esibizione di Golan e, anche se così non è stato, ieri sera l’area che ospitava il contest era circondata da manifestanti, in protesta pacifica.
La cantante norvegese di origine italiana Alessandra Mele, che avrebbe dovuto essere la presentatrice per la Norvegia, ha annunciato il suo ritiro dalla trasmissione, denunciando le azioni di Israele nella Striscia di Gaza. “E’ in atto un genocidio. Aprite gli occhi. Aprite i cuori. Lasciate che il cuore vi porti alla verità”, ha detto la Mele, “Il motto dell’Eurovision è Uniti nella musica, ma in questo momento queste parole sono vuote”.
Ma le polemiche non sono rimaste fuori dall’arena.
Fischi, ‘’buu’’ e slogan come Free Palestine hanno accolto la cantante israeliana durante la sua esibizione finale, che si sono sentiti anche in tv, nonostante i sistemi anti-booing e i fake applause utilizzati durante la diretta.
Succede questo quando un palcoscenico così importante non vuole fare i conti con le implicazioni degli accadimenti storici mondiali: il dibattito si polarizza sempre si più, tanto da diventare quasi tifoseria, ognuno prende la propria strada scegliendo come e quando usare la forza comunicativa di questi palchi, gli scontri aumentano e si perde di vista lo scopo primo di questi eventi, la cooperazione e la condivisione.
Mettiamoci poi le gaffe combinate dalla Rai, che ha pubblicato i risultati della seconda semifinale nei titoli di coda in sovrimpressione, cosa vietata dal regolamento del contest, che mostravano un 39% di voti italiani a Eden Golan. Un errore tecnico che però è stato cavalcato dal leader sionista Netanyahu.
Insomma, un’edizione delle polemiche questa sessantottesima dell’Eurovision, che è terminata fra le tante diatribe con la vittoria del cantante Nemo in gara per la Svizzera. Un testo, quello di The code, che invita ad abbandonare il gioco delle ipocrisie e delle parvenze, rompendo le regole ma trovando armonia nel proprio essere e in comunione con gli altri.
In un festival così pieno di tensioni, non sarà questa canzone vincitrice un invito a fare i conti con se stessi e il mondo che stiamo costruendo?