Implicazioni antropologiche dell'Intelligenza Artificiale: dialogo tra Benasayag e Pennisi
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Implicazioni antropologiche dell'Intelligenza Artificiale: dialogo tra Benasayag e Pennisi

Benasayag e Pennisi esplorano le implicazioni dell'IA nel libro 'ChatGPT non pensa (il cervello neppure)'.

Benasayag Pennisi
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11 Maggio 2024 - 00.37


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di Antonio Salvati

La comparsa a livello di massa di ChatGPT ci ha costretto ad aprire gli occhi su una realtà che oggi è oggettivamente assai diffusa. La connessione di ChatGPT a Internet, soprattutto a Google, ci ha indotto a meglio comprendere cosa significa trasferire la responsabilità decisionale dalle persone alle macchine o meglio ad interrogarci su cosa rimanga per l’essere umano se programmi di intelligenza artificiale come ChatGPT possono eseguire compiti complessi e prendere decisioni al posto nostro. Per Miguel Benasayag la crescente presenza e influenza dell’intelligenza artificiale «sta comportando una sorta di colonizzazione delle dimensioni umane da parte degli algoritmi».

Questo fenomeno richiede un’analisi approfondita delle implicazioni antropologiche e sociologiche. Benasayag lo fa dialogando con Ariel Pennisi. Questo dialogo è raccolto nel volume snello ChatGPT non pensa (il cervello neppure) (Jaca Book 2024 pp. 160 € 15,00) che offre un’analisi e una panoramica accessibile del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con particolare attenzione a come ChatGPT stia influenzando e modellando la nostra società. Attraverso una comprensione più approfondita di questi processi, possiamo essere meglio preparati per affrontare le sfide e le opportunità che il futuro ci riserva. Da tempo Benasayag si sta occupando di quel fenomeno sempre più rilevante che definisce la crescente delega delle funzioni cerebrali umane all’intelligenza artificiale e ai big data. Questo processo ha portato a un cambiamento significativo nel modo in cui vengono prese le decisioni in settori cruciali come macroeconomia, demografia ed epidemiologia.

Se il lavoratore dell’era fordista-taylorista poteva rafforzarsi divenendo il più possibile simile alla macchina, cioè alienandosi al massimo, oggi ci chiediamo se la delega di funzioni cerebrali rischia di atrofizzare in alcuni casi e ridurre in altri la forza del cervello. L’operaio – per Benasayag – diventa polivalente nella misura in cui perde i suoi saperi e adatta il suo corpo, i suoi muscoli, alla macchina. La differenza tra l’artigiano e l’operaio, per esempio, «è che il primo utilizza i suoi muscoli in un rapporto di co-creazione con la materia, mentre nella nostra interazione con l’intelligenza artificiale (come nella caricatura di Chaplin dell’operaio alla catena di montaggio) noi atrofizziamo alcuni circuiti e ne iper-sviluppiamo altri per effetto del feedback». Per quanto riguarda le previsioni sulla possibilità di ridimensionamento dei compiti grazie all’impiego dell’intelligenza artificiale, per Benasayag, «l’attività virtuale mediata da algoritmi moltiplica i compiti sotto forma di impieghi precari, poiché l’intelligenza artificiale automatizza più la gestione che il lavoro; in altre parole, i lavoratori non vengono sostituiti, bensì gestiti in un modo diverso».

Benasayag ci invita a elaborare un modello di ibridazione tra la tecnica e gli organismi viventi che non si riduca a una brutale assimilazione. Considerando che il cervello fa continuamente ipotesi, mentre la macchina non fa ipotesi, ma calcola; anche quando chiediamo a ChatGPT di elaborare un’ipotesi, «in realtà si tratta di una ricombinazione». I cervelli, a partire dall’esperienza corporea, «fanno ipotesi, commettono errori, ritornano sui loro passi, ci riprovano». Einstein diceva, «io non cerco, trovo» … cioè, prima trovo e poi cerco. E ciò che troviamo – osserva Benasayag – «ha a che fare con la nostra singolarità». La macchina cerca, «non smette mai di cercare, e di tanto in tanto trae una conclusione mediante il calcolo, in funzione dell’informazione che riceve». Per la macchina non c’è mai un problema: ci sono sempre nuove informazioni. La macchina non può essere stupida, non può desiderare, «non può avere un’avventura, dove esiste un muro non può ostinarsi a sostenere l’inesistenza del muro… Mentre noi esseri umani passiamo il tempo a fare cose che per questa razionalità sono incomprensibili». Il cervello, dal punto di vista della neurofisiologia moderna, progetta e cerca ciò che verrà dopo, azzarda delle previsioni. La macchina, invece, calcola in modalità discreta e trae conclusioni «sulla base delle correlazioni che stabilisce, ma non predice realmente». Quella che a volte definiamo «predizione» nelle macchine è una modellizzazione che traccia delle linee e calcola. Dal canto suo, il cervello fa ipotesi errate, ritorna sui suoi passi e si plasma progressivamente. La macchina ottiene risposte e ha un carattere performativo molto potente, «perché quando deleghiamo funzioni alla macchina imponiamo ai nostri possibili la disciplina dei possibili della macchina».

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Le nostre interazioni con il web producono dati. In questo senso siamo importanti per il web perché tutto quello che vi è presente lo inseriamo noi, attraverso i nostri gusti, interessi o bisogni vitali. Quello che noi chiamiamo IA – e pensiamo che sia chissà quale cervellone- altro non è che la registrazione della mobilitazione degli umani sul web finalizzata a scopi di automazione o scopi di distribuzione. Automatizzare significa abilitare una macchina a comportarsi come un umano copiando i gesti degli umani. Tanti compiti e azioni che noi compiamo articolatamente. I Big Data leggono i micro-comportamenti, catturano i movimenti di una vita in modo «segmentato e focalizzato e ricostruiscono profili che corrispondono a comportamenti esteriori delle persone, così come compatibilità tra profili che si traducono in relazioni interpersonali». È una specie di corsa in cui si va accorciando la distanza tra i nostri movimenti e ciò che i Big Data sono in grado di prevedere. Se siamo sempre più simili alla «proposta» del profilo, che cosa significa questo? In questo senso, il profilo è ciascuno di noi sotto forma di serie di dati che possono essere identificati e rappresentati per qualunque utilizzo.

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In relazione alla questione delle post verità è vero che, come percepisce molta gente, ChatGPT e il mondo degli algoritmi intensificano il loro effetto in relazione a testi, teorie e foto, e fanno sì che l’opinione pubblica galleggi in una totale incertezza. Dal canto suo, «il cervello non ha di per sé la capacità di distinguere il virtuale dal reale; voglio dire, è in quanto il cervello non esiste sol tanto nell’esperienza pratica, corporea che può esservi una distinzione tra realtà e virtualità. Per questo, la virtualizzazione della vita, così come la sua smaterializzazione – la vita vissuta attraverso lo schermo, diciamo – ci indeboliscono; perché è l’intero sistema di integrazione sensoriale a permetterci di capire e di pensare, insieme a tutti i materiali (libri, informazioni, immagi ni), ma meno stimoli sensoriali abbiamo, meno capiamo e meno siamo in condizioni di stabilire differenze tra ciò che è vero e ciò che non lo è». Il regime dell’informazione non conosce né contraddizione né verità. In sostanza, il problema della «post-verità» è strettamente legato alla perdita dell’esperienza e al fatto che la gente è sempre più informata e sempre meno formata.

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La tecnologia è quella che è. Diviene urgente – per B Benasayag – fare perno sulla singolarità del vivente, «sulla soggettività e sulla singolarità della stupidità umana, che è la stupidità del desiderio. L’intelligenza artificiale non può desiderare, e noi non possiamo organizzare la nostra vita platonicamente, dimenticando la negatività dei corpi». Certo che il robot non è stupido, non ha nevrosi e non si ammala, «ma noi dobbiamo costruire un mondo in linea con la nostra natura, con i corpi, con il desiderio e anche con la stupidità. Dobbiamo fare nostra la complessità del vivente, dove non c’è uomo nuovo che tenga, considerato il disastro che ha rappresentato il razionalismo, e se è vero che la macchina programma mille volte meglio di noi, tuttavia noi abbiamo bisogno di una società incasinata, perché senza il casino la trasparenza e la calcolabilità della macchina non sono vivibili per noi». Resistere alla fascinazione tecnologica è una sfida del nostro tempo. Lo sviluppo tecnologico, infatti, mette continuamente alla prova il nostro senso comune, ossia un sentimento largamente condiviso rispetto a ciò che si può considerare “normale” o “naturale” nel dispiegamento delle nostre vite.

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