di Alessia de Antoniis
Replica al teatro Argentina di Roma fino al 28 aprile La locandiera di Carlo Goldoni, con la regia di Antonio Latella, prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria. In scena Sonia Bergamasco, Marta Cortellazzo Wiel, Ludovico Fededegni, Giovanni Franzoni, Francesco Manetti, Gabriele Pestilli, Marta Pizzigallo, Valentino Villa.
Le luci si accendono suI marchese di Forlipopoli (Giovanni Franzoni) e il conte d’Albafiorita (Francesco Manetti) che già conversano. Sullo sfondo una scenografia (di Annelisa Zaccheria) che segue la smania di portare il teatro, anche quello dei secoli passati, nella modernità; laddove modernità non dovrebbe essere sinonimo di stranezza. Bella la boiserie, nonostante i curiosi fregi spezzati, che però mal si accompagna alle sedie di plastica intrecciata che fanno bar popolare anni Settanta. Concetto ribadito anche dai costumi (di Graziella Pepe) dei due nobili seduti al tavolo: uno che sembra uscito da una vecchia pubblicità di Cortina e l’altro con una improbabile tuta da ginnastica dell’Adidas.
Scrive Antonio Latella nelle note di regia: “Spesso noi registi abbiamo sminuito il lavoro artistico culturale che il grande Goldoni ha fatto con questa opera, la abbiamo ridimensionata, cadendo nell’ovvio e riportando il femminile a ciò che gli uomini vogliono vedere: il gioco della seduzione. Goldoni, invece, ha fatto con questo suo testamento, una grande operazione civile e culturale. Siamo davanti a un manifesto teatrale che dà iniziò al teatro contemporaneo, mentre per una assurda cecità noi teatranti lo abbiamo banalizzato e reso innocente”.
Questo è un obiettivo raggiunto: grazie ai bravissimi attori, questa Locandiera ha il pregio di essere contemporanea pur restando all’interno del testo originale, che viene rispettato, ma meno impostata, con una recitazione attuale, fluida, affatto caricaturale. Sonia Bergamasco, perfetta nel ruolo di Mirandolina, domina la scena. Mai troppo leziosa o datata, riesce a dare al personaggio varie sfumature, portando in scena una donna autonoma, intelligente, ironica, imprenditrice di successo in un mondo maschile e maschilista e, al contempo, fragile e in lotta con i vincoli culturali della sua società. La Bergamasco ci restituisce una donna vera e non una maschera, usando lo strumento della voce al posto dell’eccesso di gestualità alla quale certo teatro di maniera ci ha abituati. E il semplice chemisier bianco che indossa, sottolinea la scelta registica di far prevalere la sostanza sulla forma.
Se Latella voleva restituirci un testo rivoluzionario e sfaccettato, ci è riuscito. Ottima la scelta di svecchiare la famosa commedia goldoniana dalle ragnatele dei vestiti d’epoca, di eliminare eccessi di svenevolezze e civetterie nei ruoli femminili, ma la tuta da ginnastica del conte o le infradito ai piedi del cavaliere di Ripafratta, non necessariamente sono sinonimo di modernità. Così come alcune scelte registiche che lo fanno cadere nello stereotipo che eccesso sia sinonimo di rottura degli schemi. In quest’ottica sono superflue le aggiunte del finto orgasmo nella parte finale del primo atto, così come la sua chiusura a suon di fisarmonica e chitarra elettrica e il bacio appassionato tra Ortensia e Dejanira nel secondo atto. Qui prodest?
Brave nel ruolo anche Marta Cortellazzo Wiel, nel ruolo di Ortensia, e Marta Pizzigallo in quello di Dejanira, le due commedianti, brillanti e innovative.