Selvaggio ovest: una Maremma più avventurosa del Far West

Daniele Pasquini scrive "Selvaggio Ovest", un romanzo storico ambientato nella Maremma toscana, tra briganti e butteri.

Selvaggio ovest: una Maremma più avventurosa del Far West
Daniele Pasquini
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12 Febbraio 2024 - 00.18


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di Rock Reynolds

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Che Buffalo Bill Cody, il mitico cacciatore di indiani e bisonti, avesse un seppur vago legame con l’Italia mi è noto da quando, bambino, sentii la mia bisnonna ricordare racconti di chi, prima di lei, aveva assistito al suo spettacolo itinerante, il “Wild West Show”, approdato anche dalle nostre parti. Al tempo, una carovana di cowboy, pellerossa, cavalli e bisonti – in una malinconica messa in scena di uno stato di cose che, in realtà, mascherava dietro una patina di leggenda la tragedia di un popolo e di una specie in via d’estinzione – deve essere stato qualcosa di strabiliante. Il senso dell’ineluttabile tramonto di una stagione e della fine incombente di un mondo probabilmente sfuggì ai più, per lo meno in Europa.

Daniele Pasquini, grande appassionato di storia del West e frequentatore del mondo editoriale in qualità di addetto stampa, ha scritto un bellissimo romanzo che dalla tournée italiana del Wild West Show in qualche modo prende le mosse. Selvaggio Ovest (NN Editore, pagg 359, euro 18) è tante cose in una: è una storia “selvaggia” come la Maremma di fine Ottocento, ovvero la terra in cui si svolge,; è un “western” di ambientazione italiana e, in quanto tale, un romanzo storico; è un romanzo di suspense ed è per finire, un romanzo di formazione, narrando la parabola di vita di un buttaro, dalla nascita alla presa di coscienza della propria maturità.

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Siamo nella Maremma selvaggia in cui d’estate si scatenano le febbri che nelle sue zone paludose si annidano, infide. Siamo in un’Italia giovane, si potrebbe dire ancora in fasce in quanto entità nazionale, un’Italia in cui fiorisce il brigantaggio, inizialmente accolto come una sorta di movimento di liberazione dal giogo dei potenti e progressivamente percepito come una piaga scomoda. A ben vedere, la stessa figura iconica di Robin Hood si è sempre mossa su un confine molto sfumato tra legalità e illegalità, ma, soprattutto, tra etica e delinquenza. Daniele Pasquini lo sa bene e sfrutta magistralmente la figura in chiaroscuro del brigante, spesso visto con favore dalla povera gente, quando non semplicemente tollerato e temuto per le sue frequenti intemperanze. In Selvaggio Ovest è il brigante Occhionero a fare da contraltare alla legge rappresentata dal maldestro carabiniere Orsolini. Né l’uno né l’altro hanno valori moralmente in grado di farli ergere a modelli etici: quello è un ruolo che spetta al buttero Giuseppe e, in un secondo momento, a suo figlio Donato. Butteri di Maremma come cowboy del Colorado? Cavalli e forze della natura da domare da questa come da quella parte dell’oceano? In fondo, la lotta fra il bene e il male non conosce confini e le affinità (così come le differenze) sono tante. La vicenda è avvincente e scritta con passione: coinvolge e commuove. La chiave narrativa è maggiormente improntata ai toni drammatici anche se, di quando in quando, non manca un siparietto comico, per esempio quando l’autore non lesina qualche critica alla già smisurata sete di grandeur statunitense, incarnata dal narcisismo di uno sfiorito Buffalo Bill che qualche rospo deve averlo inghiottito nel constatare che anche dalle nostre parti c’era qualcuno che coi cavalli ci sapeva fare.

Si diceva che Pasquini è un grande appassionato di letteratura western. Non a caso, sulla quarta di copertina, si consiglia il suo romanzo a chi “ha divorato Lonesome Dove di Larry McMurtry”, premio Pulitzer, un romanzo, effettivamente, da leggere e rileggere, sostenuto da una trama a prova di bomba, da personaggi credibilissimi e dalla straordinaria capacità di descrivere un territorio di per sé da quadro d’artista. Sono qualità che appartengono realmente anche a Daniele Pasquini e che, per una volta, non sono semplicemente strombazzate a effetto.

Pasquini, perché un romanzo storico e perché in quel territorio?

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«Non l’ho immaginato come romanzo storico, il desiderio era scrivere un western, muovendomi all’interno di quel canone e sfruttando ruoli e meccaniche consolidate. Mi interessavano più le potenzialità narrative del western che la dimensione storica-territoriale della Toscana. Paradossalmente, per quanto la Maremma si trovi a pochi passi da dove sono nato e ci abbia passato molte estati della mia vita, culturalmente ho scoperto prima il West americano che l’Ovest italiano: quando ho visto i punti di contatto tra i due mondi, ho capito che il mondo dei butteri aveva delle potenziali narrative e ho deciso di approfondire. Rispetto alla frontiera americana, che a fine Ottocento era sinonimo di conquista, di espansione e di “civilizzazione”, e di fatto su quell’epopea si fondava l’identità dei giovanissimi Stati Uniti, la Maremma era un territorio pressoché abbandonato: una terra che nei secoli i dominanti avevano rinunciato a conquistare veramente, perché aspra, malarosa, ingovernabile. Nessuna epica trionfante perciò, ma un’atmosfera da western crepuscolare.»

Cosa l’ha spinta all’accostamento ideale tra butteri e cowboy?

«I cowboy sono arrivati prima, ed erroneamente fino a pochi anni fa pensavo ai butteri come a dei cowboy maremmani. Studiando e parlando con alcuni di loro ho scoperto che cronologicamente è vero l’opposto: il mestiere dei butteri ha origini antichissime, l’etimologia è da ricercare addirittura nel greco “butóros”, che sta per pungolatore di buoi. Il buttero non si sente un cowboy, ha un proprio patrimonio di tecniche, strumenti e tradizioni. Le analogie sono evidenti – pur sempre di mandriani a cavallo si tratta – ma quel che li differenzia è lo scarto netto di immaginario: ogni bambino ha giocato a fare il cowboy, tutti li hanno visti sul grande schermo o nei grandi romanzi americani, il mito del cowboy – ancorché controverso – è universale. Dei butteri, invece, non si parla mai, se non in ottica folkloristica o passatista.»

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Johnny Cash soleva dire che si può scrivere una canzone su tre cose soltanto: Dio, amore e morte. È quella la forza del western?

«Mi sono chiesto tante volte cosa mi interessasse del western. Da un punto di vista puramente anagrafico e generazionale si tratta di qualcosa che per me è assolutamente lontano. Fino a tre anni fa non avevo neppure mai visto un film di John Ford. Anzi, al genere sono arrivato attraverso maestri recenti, da McCarthy a McMurtry, e, per quanto riguarda il cinema, penso a Tarantino o ai fratelli Coen. Posso dire di aver scoperto un western già masticato, digerito e metabolizzato. Anche se sono tutt’altro che un esperto del genere, i miei pochi e vaghi riferimenti mi hanno guidato verso una lettura: la forza del western sta nel concetto di frontiera. Che è sì un territorio fisico verso cui spingersi, ma è anche un’idea di incertezza, di pericolo costante, in cui la morte è sempre presente e la sopravvivenza è in discussione, in cui perciò le relazioni umane sono rare e decisive, in cui tutto lo spazio circostante richiama e respinge: in questa forma di essenzialità primigenia c’è spazio e tempo per porsi domande fondamentali, c’è sempre una costante tensione verso un oltre. Sono ingredienti ottimi percostruire narrazioni sempre nuove.»

Lei specifica a chiare lettere che non tutto quello che racconta è storia e che il suo è un romanzo. Perché un romanziere oggi si sente in dovere di specificarlo?

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«Preciso intanto che quella specifica finale deve molto, a tratti ricalca, la nota introduttiva di Warlock di Oakley Hall (pubblicato da Big Sur, traduzione di Tommaso Pincio). Venendo al motivo di quella mia affermazione: perché se da un lato in narrativa trionfano (in molti casi con merito, va detto) autofiction, narrazioni in prima persona, romanzi psicologici in cui al centro sta comunque un forte io autoriale, dall’altro lato hanno fortuna critica libri molti romanzi ispirati da vicende umane e storiche, opere che combinano la prosa letteraria a quella saggistica. Le finali delle ultime edizioni dello Strega o e del Campiello forse non saranno paradigmatiche, ma indicano senz’altro una traiettoria esistente. In questo, forse, è rimasto sacrificato il gusto per l’intreccio, per l’avventura, e più in generale l’immaginazione è rimasta associata al genere, con una connotazione spesso poco qualificante. Rivendicare la natura “romanzesca” del romanzo per me aveva un doppio valore: da un lato volevo proteggermi da possibili fraintendimenti e critiche storiche, chiarendo quindi che Selvaggio Ovest, anche quando finge di attingere ai documenti, sta in realtà barando, sta cioè inventando; dall’altro mettere in discussione l’idea del valore assoluto della “verità” di una storia. Non ne sono certo, perché non sono un critico né un esperto, ma penso che l’istinto di raccontare storie sia ciò che ci distingue dagli altri esseri viventi. Come sostiene Gottschall, gli umani sono gli specialisti delle storie. Ho quindi la sensazione che siano le storie a determinare ciò che è vero, e non viceversa.»

Sul finire del romanzo c’è una frase che, da studioso della cultura popolare degli Stati Uniti, trovo molto vera: «Ma in questi giorni non faccio che pensare alla fissazione per la felicità che hanno gli americani. La rivendicano come un diritto. Qui è ancora una roba a cui pensano i ricchi?». L’incontro tra il giovane popolo italiano e il Wild West Show può aver contribuito ad aprirgli gli occhi sul fatto che aspirare alla felicità fosse un diritto?

«Non sono uno studioso, ma la pursuit of happiness probabilmente nasconde un tranello: cosa vuol dire happiness? Felicità e benessere, certo, ma all’atto pratico, in una società individualistica e capitalistica, happiness significa soprattutto successo. Il cosiddetto American dream è un inno all’affermazione personale. Che si traduce in volontà di potere, ricchezza, soldi. Nella visione americana, sostanzialmente, l’uomo è un cercatore di beni, più che un cercatore di senso. La folle corsa all’oro dei pionieri dell’Ottocento non si è mai fermata: è ancora quello il modello americano.Sappiamo fin da Weber che la matrice culturale protestante ha favorito l’affermarsi di questa visione, mentre in Italia e in Europa, sia la cultura cattolica che quella socialista hanno dato più valore a comunità, collettività, solidarietà tra le parti. È evidente che il capitalismo, per quanto in crisi, abbia infine trionfato ovunque… 

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In conclusione: è sbagliato affermare gli americani abbiano inventato la felicità, ma sicuramente sono loro che l’hanno associata così nettamente al possesso e al consumo. Io – e probabilmente anche il buttero Penna, tra i protagonisti del romanzo – mi sento più vicino a un altro americano, al Thoreau che in Walden diceva che un uomo è ricco in proporzione al numero di cose di cui può fare a meno.»

La giovanissima Italia del suo romanzo che spirito aveva?

«Nel 1890 l’Italia era unita, ma in un territorio di frontiera come la Maremma lo stato ancora non era arrivato, o comunque non con una forza e una presenza sufficienti a sradicare secoli di abbandono, di potentati locali, di latifondi e di briganti che a loro modo dettavano legge. Nel romanzo, il territorio che descrivo è ancora lontano dalla modernità, le bonifiche sono appena avviate, così come nel West sono in arrivo i binari della ferrovia, ma ancora non è chiaro che destino possa avere quella civiltà. È bene ricordare che meno di 150 anni fa in Maremma l’aspettativa media di vita arrivava appena ai 30 anni, che gli abitanti stanziali erano pochi, e giusto per la transumanza invernale si ripopolavano i pascoli. Al primo caldo, chi poteva si metteva in marcia verso gli Appennini per fuggire dalla malaria.»

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Lo spirito di Lonesome Dove aleggia sulle sue pagine. Com’è stata la sua formazione letteraria?

«Lonesome Dove è stata una benedizione nella mia vita di lettore, semplicemente sono stato preso, messo su una sella, e guidato dal Texas al Montana. Oltre al puro gusto della lettura, meravigliosa, è stata un’esperienza che mi ha aiutato a capire cosa avrei voluto scrivere, e le opportunità offerte da una narrazione di genere. Oltre a Larry McMurtry l’altro nome che inevitabilmente salta fuoriè quello di Cormac McCarthy, in particolare quello di Meridiano di sangue e della Trilogia della frontiera. Ma McCarthy non è un autore emulabile, al patto di volersi rendere ridicoli. La scoperta più bella degli ultimi anni per me è stata A.B. Guthrie: la sua produzione di western letterari è meravigliosa. Di riferimenti ne ho poi avuti molti altri, e davvero dei più vari: Steinbeck, John Williams, Lansdale, Proulx, Cather, Meyer, Punke… Tra gli italiani, se dovessi fare un solo nome, direi Salgari. A inizio Novecento, scrisse una trilogia western, e lo fece dopo aver assistito alla tournée di Buffalo Bill. In qualche modo è stato un onore provare a calcarne le orme.»

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