di Rock Reynolds
Raramente leggo prefazione e postfazione di un libro. Senza generalizzare, spesso le trovo poco utili, se non decisamente noiose. Nel caso de La pace possibile (Il Saggiatore, traduzione di Antonietta Torchiana, pagg 348, euro 24) di Edward W. Said, consiglio a tutti di partire dalla fine, con l’omaggio commosso del figlio al padre, e poi di passare all’altrettanto accorata prefazione del docente britannico Tony Judt. Gli scritti di Said raccolti ne La pace possibile sono stati redatti tra il 2000 e il 2003, appena prima della morte dell’autore, docente alla Columbia University di New York, considerato uno dei più fini pensatori del mondo arabo in relazione alla questione palestinese.
Il punto di partenza di ogni ragionamento di suo padre, come sottolinea Wadie E. Said, è che “ai palestinesi spettano gli stessi diritti riconosciuti a ogni altro popolo e che non esiste nessuna base storica per negare questa verità evidente”. Aver predetto il fallimento degli accordi di Oslo non è certo il merito primario di Said, la cui frequentazione del Sudafrica post-apartheid lo aveva portato a concepire l’unico modello di lotta a suo dire praticabile: una campagna d’informazione in tutto il mondo (compreso Israele) e una disobbedienza civile di massa per scardinare l’assioma secondo cui Israele sarebbe al tempo stesso vittima ed entità superiore.
Peccato che la leadership e l’élite palestinese preferissero negoziati segreti, rinunciando persino ai “diritti più elementari e sacri”. Tony Judt, storico britannico ebreo (scomparso nel 2010), nella prefazione gli riconosce una sensibilità umanistica che “gli rendeva insopportabile un vizio frequente negli intellettuali impegnati: l’approvazione entusiastica della violenza, di solito a distanza di sicurezza e sempre a spese di qualcun altro. Il ‘professore del terrore’, come i suoi nemici erano soliti chiamarlo, in realtà criticava la violenza politica in tutte le sue forme”. Edward W. Said era oggetto di attacchi bipartisan: per i palestinesi era “una Cassandra… irritante, che accusava i loro leader di incapacità. Per i suoi critici era un parafulmine che attirava su di sé paura e vituperio”.
Malgrado tutta l’acqua nel frattempo passata sotto i ponti, La pace possibile resta un testo attualissimo, per molti versi profetico, utile anche a chi voglia farsi un’idea più chiara del dedalo senza apparente via d’uscita che è la questione palestinese, a partire dalla Naqba, la catastrofe del 1948, per approdare alla prima e alla seconda Intifada.
Patrick Zaki, l’attivista egiziano per i diritti umani che in Italia tutti conosciamo (e di cui vi consiglio il bel libro Sogni e illusioni di libertà, pubblicato da La nave di Teseo), ha un profondo rispetto per l’opera di Said. «Edward W. Said è uno dei maggiore pensatori, filosofi e ricercatori. Non penso che nessuno della nostra epoca e della nostra regione abbia scritto cose all’altezza delle sue e che nessuno che sia interessato alle scienze sociali e alla storia possa trascurare l’opera di Said. Personalmente, ho letto Orientalismo, La questione palestinese, Nel segno dell’esilio e altri ancora. Per me, Edward W. Said è un punto di riferimento. Per la gente della nostra era, la sua opera è una sorta di Bibbia per il modo in cui parla della colonizzazione e delle questioni inerenti ai rifugiati. Insomma, è talmente importante per il suo contenuto politico che vado costantemente a rileggere ciò che ha scritto.»
L’americano Vincent Bevins, in passato corrispondente del “Los Angeles Times” e del “Washington Post”, non ha mai remore a prendere posizioni scomode su questioni internazionali che coinvolgano in qualche modo gli Stati Uniti. Il suo saggio Il metodo Giacarta (Einaudi) andrebbe letto nelle scuole. Bevins non si tira indietro nemmeno riguardo al conflitto israelo-palestinese. «In questo momento stanno succedendo due cose interessanti relativamente al legame USA-Israele. Purtroppo, nessuna delle due potrà salvare le vite dei palestinesi, vite che rischiano di essere spezzate mentre scrivo, ma tutto ciò illustra questa dinamica di lungo termine: da un lato, ci sono state espressioni di insoddisfazione tra la gente, soprattutto nelle comunità musulmane ed ebree, che hanno non soltanto portato la gente sulle strade, ma che potrebbero nuocere alle possibilità di una rielezione di Biden. E poi, persino in seno al governo stesso degli Stati Uniti, vige un dissenso sul sostegno a Israele. Abbiamo visto dimissioni e lettere aperte: e non sto parlando di hippie o rivoluzionari antimperialisti. Il dissenso è in seno al Senato degli Stati Uniti, da parte di figure che credono nel potere degli USA. Pensano che l’approccio di Biden sia bloccato su un percorso tracciato in un passato lontano e che non sia disposto o non sia capace di scostarsene. Il momento è davvero preoccupante. Ho trovato potentissimo il legame stabilito dal presidente colombiano Gustavo Petro tra la situazione di Gaza e l’imminente catastrofe climatica. Se i governi e i media del Primo Mondo sono in grado di giustificare le morti di decine di migliaia di persone – uccise deliberatamente da un alleato – si provi a immaginare con quale facilità possano liquidare i lontani decessi “naturali” che si stanno moltiplicando a causa del crollo ambientale. Penso davvero che il mondo sia a un crocevia importante: difenderemo principi di umanità condivisa e una sorta di ideale di istituzioni internazionali, per quanto imperfette e logore, oppure entreremo in un’era di barbarie senza freni? L’attuale situazione nel mondo arabo è la seguente: una serie di leader terribili devono reprimere l’aspirazione dei rispettivi popoli pur di mantenere la propria posizione nel sistema globale. L’aspirazione che devono reprimere è l’impegno condiviso in maniera incredibilmente ampia di schierarsi in favore dei palestinesi e di offrire loro un sostegno autentico. Sembra insostenibile nel lungo periodo, a meno che non rinunciamo realmente una volta per tutte all’idea di democrazia e le élite impongano sul popolo musulmano repressione e violenza senza termine. Ma nemmeno tale scenario ancor più raccapricciante è sostenibile nel lungo termine. Ecco la contraddizione che, a mio parere, rappresenta la chiave per la comprensione del futuro della regione.»
Da oltre trent’anni, Umberto De Giovannangeli segue il dipanarsi delle crisi mediorientali e ha scritto numerosi saggi sul conflitto israelo-palestinese, oltre a occuparsene sulla rivista “Limes” e su “l’Unità” e ora “Globalist”. La sua analisi lucida della situazione non lascia molta concretezza alla speranza. «C’è un prima e un dopo 7 ottobre 2023, giorno in cui il conflitto (certamente non scoppiato quel giorno) ha subito un’accelerazione. Prima c’erano stati mesi di manifestazioni di piazza che avevano portato nelle strade centinaia di migliaia di persone, un’enormità in relazione alla popolazione israeliana. Una mobilitazione trasversale contro il tentato colpo di mano del governo di destra e della percepita forzatura da parte dell’amministrazione Netanyahu di riguardo al principio base dello stato di diritto, con l’attacco dell’autonomia della Corte Suprema al fine di esercitare un controllo pressoché totale del potere politico su quello giudiziario. Una spaccatura che aveva costretto il governo a congelare, se non a mettere da parte, quella riforma. Ma poi ci sono i fatti del 7 ottobre, che hanno sparigliato le carte. Con l’America che, ancora una volta, si è schierata dalla parte di Israele. Oggi non è assolutamente ipotizzabile che ritiri il suo appoggio, non solo per via della cosiddetta lobby ebraica. Il governo più a destra della storia di Israele ha determinato una spaccatura molto forte addirittura con le associazioni della destra ebraica americana. Basta leggere gli articoli del “New York Times” con cui Thomas Friedman critica aspramente Netanyahu. Biden sta provando a incrinare la leadership di Netanyahu, senza però avere la forza per scardinarla. Ci sono molti libri che fanno luce non sulla lobby ebraica bensì sulla lobby israeliana negli USA, qualcosa di molto più complesso, comprendente l’apparato industriale e militare. E poi c’è l’evangelismo fondamentalista che ha forti punti di contatto con l’ebraismo integralista, con la comune idea della sacralità della terra che viene prima della sacralità dello stato. Non a caso, gli evangelici americani rappresentano una cospicua fetta del turismo internazionale in Israele. Ciò assicura sostegno alle associazioni più integraliste dell’ebraismo americano. Nessuna amministrazione è in grado di rompere tale legame. Poco più di trent’anni fa, cioè con gli accordi di Oslo del settembre 1993, si aprì una stagione di speranza sepolta dal terrore e dagli interessi convergenti degli opposti (Hamas e l’estremismo ebraico, gli attentati sui bus e l’assassinio di Rabin da parte di un estremista ebraico di destra). Oggi non si può parlare della realizzazione di due stati. Basta guardare la cartina. Su quali territori dovrebbe nascere lo stato della Palestina? Non può sorgere nemmeno in Cisgiordania, dove vive mezzo milione di coloni ebrei con tanto di vere e proprie città (non più semplici insediamenti). Su quale territorio e con quale sovranità dovrebbe nascere? Siamo in un vicolo cieco. Prima del 7 ottobre, si parlava di uno stato binazionale che, ovviamente, non ha avuto seguito. La pace potrà esserci solo in seguito a una riflessione profonda dei due popoli attraverso una sorta di seduta psicoanalitica collettiva. C’è l’evidente problema della coscienza del limite da parte di Israele, della consapevolezza del fatto che il suo vero fine non sia il popolo eletto, scelto da Dio per compiere una missione, bensì la realizzazione della normalità e l’ammissione dell’esistenza di un altro popolo, che è ben più di una moltitudine di essere umani. Riconoscere un popolo significa doverne riconoscere l’identità. Le parole pronunciate da Golda Meir, prima donna a capo di Israele, di idee fermamente socialiste, dovrebbero far riflettere. “Che cos’è la Palestina? Una terra senza popolo per un popolo senza terra.” Non ci sarà mai pace finché certi miti fondanti non verranno abbattuti.»
Paolo Perri, autore del bel saggio Nazioni in cerca di stato (Donzelli Editore) – un approfondimento sulla difficoltà di certe spinte indipendentiste locali (per esempio, quelle nordirlandesi e basche) di far sentire le proprie istanze e di trasformarle in passi avanti concreti nelle proprie rivendicazioni – traccia un quadro poco promettente. «Le notizie e le stime delle vittime che arrivano da Gaza non lasciano molto spazio all’ottimismo ed è davvero difficile metterle a confronto anche con il caso dei “Troubles” nordirlandesi, che hanno causato meno di 4.000 morti in circa trent’anni di conflitto, e ancora di meno con quello basco. La risposta israeliana agli attacchi del 7 ottobre ha assunto, infatti, una portata tale che risulta difficile metterla a confronto con qualsiasi crisi analoga in Europa occidentale. Temo però che una rappresaglia di questa portata possa inevitabilmente favorire un’ulteriore radicalizzazione delle parti in causa e dei militanti palestinesi. Bisognerà capire se le azioni di Hamas, oltre a rilanciarne l’immagine anche fuori dalla Striscia, in un momento in cui l’OLP e Fatah sono in grave crisi di legittimità e ormai quasi del tutto privi di supporto popolare, si tradurranno in un cospicuo supporto sul lungo periodo, ma questo oggi è difficile da prevedere. La durissima risposta militare israeliana, che, di fatto, sta facendo terra bruciata nel nord della Striscia, potrebbe, infatti, come è già accaduto in passato, portare nuova acqua al mulino delle formazioni islamiste e, probabilmente, favorire un’ulteriore radicalizzazione delle giovani generazioni in tutta l’area. Una dinamica simile, mi si passi il paragone forzato, a quella che in Irlanda del Nord, dopo la Bloody Sunday del 1972, favorì l’ingresso di centinaia di giovani nelle fila della Provisional IRA e la radicalizzazione del conflitto negli anni successivi, sebbene si tratti di eventi molto differenti. Faccio davvero fatica a immaginare un futuro governo a Gaza tra parti di Hamas e Fatah. Credo, ma è bene chiarire che siamo nel campo delle ipotesi e della speculazione, che gli islamisti proveranno a “capitalizzare” le conseguenze della risposta militare israeliana, che però sembra mirare all’eliminazione di tutti i capi di Hamas, sulla falsariga del dopo Monaco 1972, mentre non mi pare realistica una rivitalizzazione di Fatah e dell’OLP, alle prese con una crisi apparentemente irreversibile. Il vecchio leader Abu Mazen da anni si rifiuta di convocare le elezioni in Cisgiordania poiché teme, a ragione, un possibile successo di Hamas. Non mi pare, poi, che Netanyahu e le formazioni di destra che ne sostengono il governo siano propensi a riconoscere un’autorità “ufficiale” a Gaza, data la loro netta opposizione a ogni soluzione che possa anche soltanto aprire alla possibilità della creazione di uno stato palestinese. Opposizione alla soluzione dei due stati che la destra israeliana condivide da tempo con Hamas e Jihad islamica. A sparigliare completamente le carte potrebbe essere, come spesso capita di ipotizzare nelle fasi di radicalizzazione di un conflitto, l’eventuale liberazione di Marwan Barghuthi, il capo del braccio militare di Fatah durante la seconda intifada, detenuto da 21 anni e condannato a cinque ergastoli dalla giustizia israeliana. Barghuthi, la cui figura viene spesso accostata a quella del sudafricano Nelson Mandela, gode, infatti, di un sostegno popolare elevatissimo a Gaza come in Cisgiordania, ed è oggi accreditato di un consenso superiore a quello di islamisti e OLP insieme. Un suo eventuale ritorno sulla scena politica potrebbe certamente ridare nuovo vigore al nazionalismo laico e di sinistra, a spese del radicalismo islamico, così come riportare al centro delle rivendicazioni palestinesi l’obiettivo dei due stati messo da parte dalla progressiva radicalizzazione delle parti negli ultimi vent’anni. Ma mi pare che la detenzione di Barghuthi continui a giovare a tutti gli attori politici di ambo gli schieramenti. Però, come dicevo, siamo nel campo della mera speculazione.»
Il professor Salvatore Zappalà è autore del saggio La tutela internazionale dei diritti umani (Il Mulino) e, dunque, ha dimestichezza con l’aspetto del conflitto che inorridisce maggiormente: il modo in cui i diritti fondamentali dei civili vengono calpestati in questo conflitto. Ma com’è possibile che le convenzioni internazionali non trovino quasi mai una vera applicazione? Come se ne esce? «Le popolazioni civili, in tutti i conflitti o quasi, subiscono in maniera più o meno pesante gli effetti della guerra, specie quand’essa si dipana su un territorio su cui la popolazione è stanziata. Per esempio, è probabile che gli ucraini subiscano maggiormente gli effetti del conflitto rispetto ai russi. Si tratta, quindi, di conseguenze quasi inevitabili. Ma una cosa ben diversa è l’eventuale ricorso a tecniche o tattiche di guerra che comportino la deliberata privazione dei beni essenziali per la sopravvivenza dei civili: si tratta di un crimine di guerra. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si è espresso contro tali tattiche. Naturalmente, va dimostrato che ci sia l’intento di privare i civili dei mezzi essenziali per la sopravvivenza. In genere, vengono addotti ragionamenti indicanti che si tratta di conseguenze al di fuori del controllo dei belligeranti o, addirittura, imputabili alle forze che resistono agli attacchi, coinvolgendo indebitamente la propria popolazione civile. In questi giorni, il Sudafrica ha attivato la giurisdizione della Corte Internazionale di Giustizia in relazione alla convenzione contro il genocidio del 1948. Potrebbe instaurarsi un vero e proprio contenzioso internazionale in materia. Siamo ancora nella fase delle questioni preliminari, ma in campo c’è la richiesta alla corte di adottare misure cautelari, per esempio un’ordinanza per chiedere a Israele di evitare il rischio di sottoporre la popolazione palestinese ad atti potenzialmente genocidiari. La strada di un procedimento giurisdizionale internazionale è comunque un buon segnale. La corte dovrà dapprima affermare positivamente la propria giurisdizione, cosa possibile considerati alcuni precedenti come il caso relativo al “genocidio dei Rohingya” in Myanmar. Dopodiché, ci sarà l’eventuale misura cautelare e poi, naturalmente, il procedimento del merito. Per dimostrare l’esistenza di un genocidio, è indispensabile provare l’esistenza non soltanto d una serie di atti previsti dalla convenzione, ma soprattutto di un “dolo speciale”, ovvero l’intenzione di distruggere totalmente o in parte un gruppo razziale, nazionale, etnico o religioso. È una prova complessa da conseguire. In questa fase, la corte non deve pronunciarsi. È sufficiente individuare un “fumus”, ossia un livello di prova assolutamente preliminare e molto meno stringente, identificabile come la presenza di elementi che indichino la possibilità che in atto vi sia un potenziale genocidio. Il fatto che Israele partecipi al procedimento è una buona notizia.»