Servizio Sanitario Nazionale addio: la distruzione della sanità pubblica spiegata in un libro

L'esperto di politiche sanitarie Ivan Cavicchi ricostruisce l'omicidio del sogno riformatore incarnato dal SSN

Servizio Sanitario Nazionale addio: la distruzione della sanità pubblica spiegata in un libro
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

8 Gennaio 2024 - 14.33


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In Italia ci si lamenta – tutti – della malasanità pubblica, cioè dell’inadeguatezza della prestazione dei servizi sanitari professionali, che causa un danno ai cittadini: pronto soccorso impossibilitati a smaltire sovraccarichi di lavoro abnormi, penuria di adeguato personale medico e paramedico, progressiva diminuzione dei posti letto nei nosocomi, disastrose liste di attesa per indagini diagnostiche, carenza della medicina di prossimità, aumento del costo di farmaci e cure, e così via. È un drammatico dato di fatto, comprovato dall’esperienza di ognuno e dall’implacabile legge dei numeri. In pochi, però, si chiedono a cosa sia dovuta questa regressione della nostra civiltà, pericolosa negazione del diritto alla salute sancito dal dettato costituzionale.

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Ha provato a chiederselo Ivan Cavicchi con un libro, Sanità pubblica addio. Il cinismo delle incapacità, edito da Castelvecchi (pp. 285, € 20). Strenuo difensore della sanità pubblica, l’autore conosce a fondo la materia indagata: filosofo della medicina, sociologo e antropologo, insegna presso la facoltà di Medicina dell’Università Tor Vergata di Roma e da lustri si occupa di politiche sanitarie. Il volume è un imperdibile breviario per chi voglia capire cosa è avvenuto al sogno riformatore incarnato dalla Legge n. 833 del 1978 istitutrice del Servizio Sanitario Nazionale: un sogno frantumato negli anni dall’incapacità e dal cinismo della politica che ha guidato e guida il Paese, da “comodi e servizievoli ministri”, da amministratori incapaci o criminali.

Con approccio diacronico, l’autore ricostruisce i passaggi fondamentali della sanità pubblica a partire dal 1978, tenendo come bussola il dettato dell’articolo 32 della Costituzione, “l’archè della sanità pubblica”, da cui scaturisce il diritto alla salute dei cittadini e dal quale il SSN discende, le controriforme degli anni Novanta, con l’aziendalizzazione delle strutture sanitarie, la privatizzazione della cura, l’introduzione dei fondi assicurativi e della speculazione: provvedimenti che hanno aperto la porta “al cinismo e alla sua intrinseca immoralità”, dato

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luogo ad una “fabbrica delle diseguaglianze”. Il presupposto che muove lo studio è adamantino: per garantire la sanità pubblica, cioè il diritto alla salute dei cittadini, “non basta aver fatto negli anni Settanta delle riforme, ma serve soprattutto oggi avere un pensiero riformatore costante”, cioè esattamente quello che manca.

Il discorso portato avanti da Cavicchi non è però soltanto ideale: mira a individuare i responsabili di questo sfascio ignominioso: “Oggi con la morte della sanità pubblica assistiamo alla morte del riformismo in sanità, cioè alla morte di quella cosa senza la quale il diritto alla salute non riesce a sopravvivere. Diritto e riforma sono la stessa cosa. Che la morte del riformismo in sanità coincida prima del governo di destra con un governo della sanità di sinistra ci deve far pensare. Quello che fa pensare è che la sinistra prima che arrivasse la destra abbia perduto la sua vocazione riformatrice. Fa pensare che la vocazione riformatrice sia finita con l’uccisione dell’albatros e causata da essa”. L’albatros evocato a simbolo del sogno riformatore assassinato è l’immagine poetica a cui l’autore ricorre per illustrare la sua requisitoria: la leggenda del vecchio marinaio, messa in versi dal poeta inglese Samuel T.  Coleridge, che narra delle disgrazie senza fine di una nave, sul cui pennone, dopo una tempesta, si era posato un albatros, freddato da un marinaio con un colpo di balestra. Per la gente di mare l’albatros è il simbolo del patto che lega l’uomo al mare, e la sua morte per i marinai è presagio di sventura. Ebbene, “per la sanità pubblica è accaduta la stessa cosa: il patto che la legava al sogno riformatore del ’78 è venuto meno”, per cui negli anni le sventure della sanità e i presagi funesti sono aumentati fino a diventare “certezze di sventura”.

Oltre la politica, l’autore individua anche un altro responsabile: “la sanità intesa come settore, sistema di servizi, come collettività di operatori, come sindacati e società scientifiche, come categoria sociale”. La natura del legame tra sanità e politica “è sempre stata consociativa”, e proprio la sanità, che per prima avrebbe dovuto difendere l’albatros, “non l’ha fatto”: le famigerate controriforme del 1992 e del 1999 “sono state condivise con la sanità”, che, sulla base delle proprie convenienze, “ha sempre fatto bordone”. Se siamo giunti al capolinea, al di là degli errori e dei calcoli d’interesse della politica di destra come di sinistra, “è perché la sanità per prima è moralmente al capolinea”.

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Tra pregiudizi e resilienze, burocrazia, ideologia e occasioni mancate, il libro si snoda insomma come un viaggio nell’incubo di un Paese malato, che ha smarrito ogni bussola civica, la forza e la capacità di immaginarsi e realizzarsi secondo il dettato costituzionale che gli ha dato vita. Eppure, conclude Cavicchi, se la politica volesse restituire all’articolo 32 della Costituzione il suo pieno valore, “potrebbe controllare e distribuire la salute come opportunità di benessere per le persone e per le comunità”: dunque per milioni di cittadini.

Il libro si chiude con alcuni suggerimenti per invertire la rotta. Il primo è chiudere il ciclo che dal 1978 arriva all’oggi, e aprire una nuova stagione di riforme. Cosa non poco complicata, poiché il più grosso problema che vi si frappone è “l’inadeguatezza del pensiero della politica”, che si dimostra incapace a “vincere il confronto con le complessità”. Proposte per ridare centralità e concretezza all’articolo 32, per rianimare la sanità pubblica certo non mancano: “le idee ci sono e aspettano solo di essere usate”. Resta dunque da verificare se vi sia o meno la volontà politica, ma consapevolezza deve illuminare chi metterà mano a quelle auspicabili, indifferibili riforme: “il diritto alla salute è tutt’altro che utopico”. Il suo è un sogno “assolutamente realizzabile”. Con i mezzi culturali di cui oggi disponiamo, rinunciare al dettato dell’articolo 32 “sarebbe un errore colossale”. È nel futuro di questo settore, aggiungiamo noi, che si gioca gran parte dell’accesso democratico alle risorse e all’affermazione del diritto nel nostro Paese. Ed è dovere di tutti impegnarsi per realizzare un avvenire di civiltà e non di barbarie.

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