di Antonio Salvati
Con rammarico assistiamo alla crescente marginalizzazione del pensiero storico nel dibattito pubblico contemporaneo. Eppure, in un mondo sempre più complesso, sotto la forte spinta del presentismo, è invece sempre più necessario fare storia e leggere storia. In un mondo così articolato e spaesato, ci vuole più cultura e più cultura storica. Nessuno può negare l’utilità di conoscere il passato: il proprio, quello del proprio Paese, del mondo. La domanda, pertanto, non è se sia necessario o no praticare la storia ma come farlo? Come spesso accade, il cinema, la letteratura o l’espressione artistica in generale, ci vengono in aiuto.
La Repubblica italiana quest’anno compie 78 anni. Dopo una dittatura ventennale e una guerra mondiale, il 2 giugno 1946 nel nostro Paese si svolse un referendum sulla forma istituzionale dello Stato, cioè la scelta tra la monarchia e la repubblica, che – com’è noto – premiò quest’ultima. Furono le prima elezioni libere a suffragio universale maschile e femminile, per la prima volta nella nostra storia votarono anche le donne. È un’Italia che è degna di essere rievocata. In questo senso, lo straordinario film di Paola Cortellesi C’è ancora domani, giustamente coronato da un enorme successo di incassi, non è solo un significativo tributo alle donne di ieri e di oggi, a partire soprattutto da quelle cosiddette invisibili, per mostrare come le donne abbiano fatto la Storia loro malgrado. È un film che non solo sorprende, diverte, commuovono. Fa riflettere, rievocando la svolta storica del diritto di voto alle donne (l’affluenza alle urne – giova ricordarlo, pensando alle ultime elezioni politiche – fu altissima, dei 28 milioni di aventi diritto al voto espressero la propria preferenza quasi 25 milioni, circa l’89%), cinematograficamente ben raccontata in prima persona dalla Cortellesi, come regista ma anche come attrice, nelle vesti di una donna vittima di violenza domestica, scegliendo significativamente il bianco e nero del grande cinema nazionalpopolare degli anni del neorealismo che ha fatto scuola nel mondo per raccontare la sua piccola grande storia.
Quella del secondo dopoguerra, è un’Italia – insisto – che merita di essere richiamata alla memoria. Un’Italia in cui i segni della guerra, della distruzione fisica e materiale, della memoria di tante vittime, delle profonde rovine morali, spirituali e affettive, erano ancora assai visibili. Un diffuso sentimento del rifiuto del conflitto a cui il fascismo aveva portato univa l’Italia in un forte spirito di ricostruzione, trasversale ai campi politici e ideologici.
Ho ripensato al bel libro di Viola Ardone, Il treno dei bambini (Einaudi 2019, pp. 248 € 17,50), destinato quest’anno ad approdare sui grandi schermi attraverso la regia di Cristina Comencini. Il romanzo racconta la vicenda – in realtà decisamente poco nota – di migliaia di bambini del Sud dell’Italia che, nel secondo Dopoguerra, grazie al Partito Comunista furono strappati alle loro origini e affidati a famiglie del Centro e del Nord.
Ambientato nel 1946, protagonista del romanzo è Amerigo Speranza, un bambino di sette anni che vive a Napoli, in un forte stato di miseria, solo con la madre Antonietta. La madre, analfabeta, cresce Amerigo da sola (il padre li ha abbandonati per cercare fortuna in America), portando dentro il dolore per il figlio maggiore morto di bronchite prima che Amerigo nascesse. Per offrire ad Amerigo la possibilità di costruirsi una vita lontano dalla povertà, Antonietta aderisce all’iniziativa dei Treni della felicità promossi dal Partito Comunista nel Secondo Dopoguerra, che ha portato oltre 70.000 bambini del sud-Italia ad essere accolti presso famiglie del centro-nord. Un viaggio, quindi, attraverso la miseria. Ma anche la generosità dell’Italia del dopoguerra, vista dagli occhi di un bambino diviso tra due madri. Il treno su cui viaggia Amerigo, insieme ai suoi amici Tommassino e Mariuccia, è diretto a Modena dove viene ospitato da Derna, un membro del Partito Comunista locale, donna sola senza figli, che accoglie il bambino con affetto e calore. Amerigo trascorrerà le sue giornate con la famiglia della sorella di Derna e si affezionerà ad Alcide, il capofamiglia, che lo tratta come uno dei suoi figli. Amerigo frequenterà la scuola ed imparerà a suonare il violino. Ritornerà a Napoli e scapperà di nuovo verso il Nord. Riapparirà nella sua città d’origine soltanto parecchi anni dopo per il funerale della madre.
La Ardone riesce con grande abilità a tratteggiare non solo il carattere e la personalità di Amerigo e di Antonietta, ma anche il periodo storico in cui è ambientato il romanzo. Dimostrando così, quanto la cultura letteraria pone al centro l’esperienza umana e giova a costituire una mentalità comprensiva nei riguardi di tutti gli aspetti, dalla virtù all’abiezione, della persona dell’uomo. Proprio perché la letteratura abbraccia l’intera esperienza umana è necessario rimarcare le relazioni fruttuose tra essa e la conoscenza storica. La storiografia e il romanzo evidentemente appartengono a due dimensioni diverse. Tuttavia, anche se può apparire eccessivo affermare che il romanzo arriva là dove non arriva la storia, non siamo lontani dal vero nel sostenere che la narrazione storica sarebbe più povera senza il romanzo e che tanti grandi romanzieri – anche inconsapevolmente – hanno saputo gettare uno sguardo totale sulla realtà, sul mondo.
La solidarietà tra Nord e Sud che si respira in questo libro fa riflettere. Arrivato a Modena, Amerigo racconta della sua nuova scuola (dove non c’erano né “scoppole” né “mazzate” come a Napoli): «in questa scuola la maestra è un maschio e si chiama signor Ferrari. È giovane, non ha i baffi e tiene la erre moscia. Dice agli altri che io sono uno dei bambini del treno e che mi devono accogliere e farmi sentire a casa mia. A casa mia non avevo niente, penso. Quindi è meglio che mi accolgono come a casa loro».
Parole che evocano la “questione meridionale”, assente da diversi decenni dalle attenzioni della politica nazionale. Eppure all’Italia spettano molti miliardi di Next Generation EU proprio perché esiste una questione meridionale ancora aperta. I dati disponibili dimostrano – dopo oltre 160 anni dalla proclamazione dell’Unità d’Italia – la persistenza di notevoli divari territoriali che contrappongono il Mezzogiorno al Centro-Nord, soprattutto attraverso alcune dimensioni come: l’istruzione, la demografia, la politica industriale e il funzionamento della pubblica amministrazione sia nella sua funzione di erogazione di servizi, sia nella sua capacità di spesa dei finanziamenti pubblici. Anche nell’ultima campagna elettorale, quella del 2022, per molti versi tra le più indecenti e improbabili degli ultimi anni, la questione meridionale è stata la grande assente nei dibattiti. Eppure, l’Italia resta un paese per tanti verso spaccato e a due velocità, e l’ultimo decennio di crisi economica ha contribuito ad acuire il divario. Eppure il Sud ha circa 20 milioni di abitanti, il doppio o più del doppio della Svezia, dell’Austria, della Repubblica Ceca, dell’Ungheria, della Grecia; solo quattro stati membri dell’Unione Europea hanno una popolazione maggiore.
Il recente lavoro di Filippo Sbrana, dall’emblematico titolo, Nord contro Sud La grande frattura dell’Italia repubblicana (Carocci 2023 pp. 245, € 28) è un contributo sulla ricostruzione e l’interpretazione di tale frattura, la contrapposizione fra Nord e Sud che si determina fra l’inizio degli anni Settanta e la metà degli anni Novanta del Novecento, connettendo gli elementi economici a quelli sociali, culturali, politici e istituzionali. Dopo la crisi finanziaria del 2008, l’Italia ha perso terreno rispetto ai paesi più avanzati e al resto dell’Europa, mentre il Sud – come osservano studi della Banca d’Italia – «ha visto progressivamente diminuire il suo peso economico, evidenziando una crescente difficolta nell’impiegare la forza lavoro disponibile [e] una riduzione dell’accumulazione di capitale» che in precedenza era sostenuta dall’intervento pubblico. I dati sull’andamento del Pil nel Mezzogiorno sono costantemente inferiori a quelli del resto del paese, spesso in maniera sensibile. Gli studi più recenti delineano un quadro molto preoccupante, perché i divari si sono ampliati ed appare chiara non solo l’esistenza di una questione meridionale, ma anche di una più complessiva questione nazionale.
Potremmo allora sostenere che il libro di Viola Ardone è un ulteriore appello alla coesione del nostro paese. Dopo la pandemia e lo scoppio della guerra in Ucraina, l’Italia ha forte bisogno di coesione, di uno sviluppo armonioso e di un Sud che contribuisca al futuro del paese. Dal punto di vista economico e non solo, basti pensare alla lotta alle mafie. Sappiamo bene che ci sono state stagioni in cui i problemi delle aree meridionali sono stati affrontati con successo, riuscendo a superare anche gli elementi di sfiducia e pregiudizio esistenti. Questo ha contribuito allo sviluppo di tutta l’economia nazionale, visto che ciascun territorio è più forte se lo sono anche gli altri.