Svelando il lato oscuro del Novecento: un'analisi profonda

Nel libro "Eccidi Nazifascisti" di Daniele Biacchessi, l'autore esplora gli eccidi nazifascisti e la complessa natura della memoria storica.

Svelando il lato oscuro del Novecento: un'analisi profonda
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28 Ottobre 2023 - 00.11


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di Antonio Salvati

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Il nuovo volume di Daniele Biacchessi, Eccidi nazifascisti. I fascicoli dell’armadio della vergogna (Jaca Book 2023 pp. 192 € 19,00) si inserisce a pieno titolo nel campo dei memory studies odierni. L’espressione “memoria storica”, seppur assai corrente nel lessico comune, ha un significato o statuto incerto. Infatti, lega due termini che sono in tensione fra di loro: la storia, in quanto oggetto della storiografia, punta o tende – osserva lo storico Paolo Jedlowski – all’accertamento di una verità che, almeno idealmente, mira all’oggettività, basandosi sull’utilizzo rigoroso delle fonti, formulazione di ipotesi e controllo ricorrente della loro plausibilità da parte di una comunità scientifica; la memoria, al contrario, è spesso soggettiva, risponde frequentemente a esigenze prevalentemente identitarie ed è mutevole sotto la spinta di interessi contrastanti: serve la vita in modo immediato, spesso incurante delle deformazioni cui sottopone il passato.

Un testo prezioso, quello di Biacchessi, per non dimenticare le centinaia di eccidi nazifascisti contro civili italiani inermi, per difenderle «da operazioni di revisionismo, o peggio ancora di vero e proprio “rovescismo”, in cui le vittime diventano carnefici e gli assassini si trasformano in martiri». Un libro che non avrebbe visto la luce senza l’impegno di Franco Giustolisi che – attraverso un giornalismo che si dovrebbe definire “militante” – condusse ostinatamente una ricerca su una stagione drammatica e dimenticata della storia italiana, quella delle stragi nazifasciste del 1943-’45, raccogliendo vecchie carte e testimonianze, arricchendole con nuove indagini.

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Siamo nella primavera 1994 quando il procuratore militare della Repubblica di Roma Antonino Intelisano è impegnato nell’indagine preliminare relativa alla strage delle Fosse Ardeatine. Il magistrato sta cercando in archivio una richiesta di autorizzazione a procedere che potrebbe essere contenuta negli atti del precedente processo contro Herbert Kappler. In seguito ad una lunga serie di ricerche viene alla luce un pezzo di Storia italiana che riguarda gli eccidi nazifascisti avvenuti in centinaia di borghi italiani dal 1943 al 1945. Si tratta di incartamenti occultati attraverso un’archiviazione illegale, firmata il 14 gennaio 1960 dal generale Enrico Santacroce su ordine politico: si trovano in un locale adibito ad archivio nel Palazzo Cesi-Gaddi di Roma. I fascicoli sono stipati in un armadio in legno marrone. Nessuno lo cerca, nessuno lo vuole trovare. Chi lo ha nascosto per ben trentaquattro anni? Vengono alla luce 695 fascicoli raccolti in faldoni, stipati uno sull’altro. Biacchessi riapre i fascicoli, li confronta con le carte di vecchi e nuovi processi, incontra testimoni, familiari delle oltre 15 mila vittime, magistrati, avvocati, segue le tracce degli assassini rimasti di fatto impuniti e non più in vita, ricostruisce un mosaico composto da tasselli di verità celate.

Occorre contestualizzare la vicenda, inquadrandola nel «nodo spinoso dell’eredità della guerra partigiana nella Repubblica». Come ha recentemente ricordato la storica Michela Ponzani, nel volume Processo alla Resistenza. L’eredità della guerra partigiana nella Repubblica (1945-2022) edito da Einaudi, all’indomani del secondo conflitto mondiale si generò un vero e proprio Processo alla Resistenza («tema rimosso dalla memoria collettiva del Paese»), celebrato nelle aule di giustizia dell’Italia repubblicana, che per decenni avrebbe animato il dibattito mediatico, «plasmando distorsioni, manipolazioni, miti e luoghi comuni “antiresistenziali” (di una certa persistenza), in un’infinita serie di polemiche a posteriori». La messa sotto accusa dell’antifascismo «finí col ribaltare le ragioni e i torti, i meriti e le bassezze, i valori e i disvalori; trasformando coloro che avevano combattuto contro nazisti e fascisti in pericolosi fuorilegge che avevano attentato al bene della patria» (esponendola all’invasione angloamericana e ai tragici effetti delle rappresaglie, scatenate dall’esercito occupante tedesco) e messo a repentaglio la sicurezza nazionale, difesa invece fino alla fine dai combattenti di Salò. Facendo leva sulla stampa degli anni Cinquanta, la magistratura del dopoguerra (assai compromessa col regime fascista, per cultura e tradizione) avrebbe giudicato quei partigiani che avevano combattuto una guerra per bande. Mentre ex fascisti e collaborazionisti della RSI, autori di stragi e crimini contro civili, sarebbero stati assolti, riabilitati e persino graziati (anche per via della cosiddetta “amnistia Togliatti” nel 1946) per aver «obbedito ad ordini militari superiori» o semplicemente per la loro natura «di buoni padri di famiglia», i partigiani sarebbero stati giudicati come responsabili (sia pure in via indiretta) per le rappresaglie scatenate dai nazifascisti, per non essersi consegnati al nemico. Fa ancora impressione (ri) leggere che i parenti delle uniche due vittime civili cadute nell’attacco di via Rasella del 23 marzo 1944 presentarono un esposto alla Procura di Roma chiedendo la condanna dei partigiani per omicidio plurimo di civili uccisi nel corso di quell’atto di guerra. Dopo l’estradizione in Italia di Priebke, i partigiani che misero a punto l’azione di via Rasella verranno – soprattutto da alcuni giornali di destra – accusati di essere i veri responsabili, sia pur in via indiretta, del massacro delle Fosse Ardeatine.

Insieme alle questioni storiografiche, il libro provoca riflessioni di tipo filosofico sul male che frequentemente irrompe, spesso inaspettatamente, nella storia del secolo scorso o di recente nelle nostre vite, come accaduto in Ucraina o in Medioriente. La nostra coscienza si trova catapultata in uno stato di profonda angoscia e smarrimento, tanta è la violenza messa in campo. Un’irruzione, spesso incomprensibile e inattesa, che ci spinge a interrogarci sulle profondità della nostra essenza, facendoci sentire incredibilmente vulnerabili e schiacciati sulle nostre fragilità. Molte volte l’esperienza travolgente del male, nella sua cruda ineffabilità, rende qualsiasi tentativo di descriverlo o di circoscriverlo verbalmente uno sforzo assai arduo o vano. Si sente la necessità di dare voce al proprio sconcerto, di cercare parole che possano lenire, se non spiegare, l’indicibile dolore provocato dagli eccidi nazisti. Da tempo, la riflessione filosofica sul male ha generato molteplici interpretazioni.

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Questo genere di male – ha osservato recentemente il filosofo Giovanni Scarafile – solleva domande profonde sulla natura stessa dell’esistenza, poiché non può essere facilmente spiegato né razionalizzato. Vengono in mente tante tragedie del secolo scorso accadute senza apparente motivo, molteplici sofferenze senza causa identificabile o a eventi traumatici incomprensibili. Una tentazione comune nella filosofia e nella teologia è di considerare il male come una necessaria ombra del bene, come una sorta di contrappunto che evidenzia e magnifica la presenza del bene. Questo argomento, tuttavia, diventa problematico – osserva Scarafile – di fronte al male incommensurabile. Come può, infatti, «un male apparentemente senza motivo o spiegazione servire a esaltare il bene? E come può un Dio benevolo, se concepito in tal modo, permettere tali mali? Rispondere a queste domande richiede il ricorso alla razionalità che possediamo, benché limitata e incapace di svelare pienamente i misteri della fede. Questo non implica una rinuncia, ma piuttosto l’adozione di una postura che, pur mantenendo intatto il mistero del male, ci offra una percezione almeno parzialmente comprensibile». La presenza del male pone notevoli sfide al pensare. Ecco perché sono utili i libri come quello di Biacchessi. Aiutano ad interrogarci sulle fondamenta stesse della nostra comprensione della responsabilità e dell’essenza dell’etica. Cercare di capire il male, nonostante la sua devastazione apparentemente insensata, è dunque una testimonianza del nostro profondo bisogno di cercare significato. Il vero valore risiede non tanto nel trovare una risposta definitiva ma nell’avere il coraggio di porre la domanda. Nel nostro continuo interrogarci riscopriamo l’umanità dell’animo umano. E in questo sforzo risiede la nostra vera forza, la capacità di restare umani.

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