È possibile condensare in poco più di un’ora di rappresentazione scenica un’opera letteraria complessa e articolata, dai molteplici echi filosofici e dalle profonde risonanze emotive come I fratelli Karamazov? Ebbene, con Le memorie di Ivan Karamazov, Umberto Orsini ha dimostrato che si può.
È la terza volta che il grande interprete novarese affronta l’immortale capolavoro di Dostoevskij. Indimenticata la prima, nello sceneggiato televisivo di Sandro Bolchi, che andò in onda nel lontano 1969, quando, con un cast stellare (Salvo Randone, Corrado Pani, Carlo Simoni, Lea Massari tra gli altri), vestì i panni di Ivan Karamazov. Lo prese di nuovo per le corna ne “La leggenda del santo Inquisitore”; stavolta, coadiuvato da Luca Micheletti, Orsini ha impugnato la penna e trasposto il cuore del romanzo in una drammaturgia che si configura come un viaggio impavido negli abissi della coscienza umana.
Egli veste ancora i panni del tormentato Ivan, assertore del pensiero libero, dell’amoralità del mondo, della libertà assoluta e del diritto di non credere in idee (anche religiose) ed ordini precostituiti, ma gli ridà nuova vita, riprendendolo con gesto pirandelliano lì dove l’autore lo aveva lasciato, in un cantuccio a rosolarsi nei sensi di colpa.
Ed ecco che in un allestimento scabro, con assi cosparse di polistirolo a suggerire neve, l’imponente catafalco d’un tribunale, un carretto e l’inizio d’una scala in un angolo, una porta dove cercare inutile riparo, una botola infernale, una sedia scalcagnata come la sua anima portata in giro nello spazio scenico dall’eroe, quasi unico sostegno nel tremendo processo messo in atto dalla sua mente – ecco che Ivan torna a parlare, e con doppia voce: quella del soliloquio con cui rammenta le vicende che lo videro controverso personaggio del romanzo, e quella spietata della sua coscienza, che non ammette ipocrisie e furbeschi giochi di parole: non a caso, la pièce si apre e si chiude con un termine bruciante: verità.
Perché l’Ivan messo magistralmente in scena da Orsini è un uomo ormai invecchiato, giunto ad un momento decisivo della sua tormentatissima esistenza. E questo è il cuore dello spettacolo, il teatro nel teatro, l’arte nell’arte, in una mise en abyme che suscita e rappresenta il dramma della coscienza, ma anche il dramma della parola. Ivan lotta con le parole quanto con la propria interiorità, avvertendo il tremendo iato che separa la complessità del suo pensiero e l’incapacità del linguaggio di esprimerlo. Colpevole per aver armato con le sue idee la mano del fratellastro Smerdjakov contro il proprio padre, o innocente che sia, poco importa allo spettatore, che si ritrova smarrito nella tempesta filosofica suscitata dallo stringente argomentare di Ivan. In tal modo, Orsini mette in scena il prodigioso potere della parola, la capacità di evocare col puro suono emesso dalla vibrazione delle corde vocali mondi, immagini, significati, ricordi e arditi salti in futuri tutti da scrivere – e da vivere.
Al termine dello spettacolo il pubblico, commosso e scosso, balza in piedi a rendere un prolungato omaggio al grande attore: è trascorsa poco più di un’ora, ma la magia del teatro, la densissima materia rappresentata, dilatano il tempo in uno spazio incommensurabile. Siamo grati ad Umberto Orsini, al regista Luca Micheletti, per averci ricordato che la vita non è soltanto vuoto vaniloquio, ma coscienza e consapevolezza, di sé e del mondo che ci circonda, intemerato viaggio nelle oscure profondità del nostro essere volto a distillare un qualche significato che ci renda davvero umani. Lo spettacolo, a nostro avviso imperdibile, curato nelle scene da Giacomo Andrico (il freddo delle scenografie a contrasto con l’anima rovente del protagonista), nei costumi da Daniele Gelsi (l’abito consunt, nel suono da suono Alessandro Saviozzi e nelle distopiche luci da Carlo Pediani, è in scena al Teatro Vascello di Roma dal 10 al 22 ottobre.