di Antonio Salvati
Da quel viaggio in Israele è scaturito il racconto, La sfida di Gerusalemme (pubblicato da e/o e Libreria Editrice Vaticana 2023, pp. 160, € 17,00). Il volume contiene una lettera allo scrittore di Papa Francesco in cui ricorda il suo viaggio in Terra Santa del 2014 sulle orme di Paolo VI e del suo storico incontro con il Patriarca Atenagora. Partendo da quella lettera possiamo ricavare la chiave per comprendere la ricchezza del racconto di Schmitt: «la Terra Santa ci offre questo grande dono: toccare letteralmente con mano che il cristianesimo non è una teoria né un’ideologia, ma l’esperienza di un fatto storico. Questo avvenimento, questa Persona, si possono ancora oggi incontrare là, tra le colline assolate della Galilea, le distese del deserto della Giudea, i vicoli di Gerusalemme. Non come un’esperienza mistica fine a sé stessa ma come la controprova reale che i Vangeli ci hanno trasmesso l’effettivo svolgersi di un fatto storico, nel quale si è andata dispiegando la rivelazione definitiva di Dio all’uomo e alla donna di ogni tempo: Dio si è incarnato in un uomo, Gesù di Nazareth, per annunciarci che il suo Regno è vicino a noi».
Per Schmitt si viaggia per prendere corpo. Il suo viaggio, sollecitato dal vaticano, inizia con una domanda impegnativa: «andrò anch’io a Gerusalemme per dare un corpo alla mia fede?». Durante li viaggio troverà alcune risposte sul senso del pellegrinaggio. Insieme ad alcuni suoi compagni – dopo una discussione sulla veridicità della localizzazione della Trasfigurazione di Gesù sul monte Tabor – giungerà a delle conclusioni: «Il pellegrinaggio è un’escursione fisica, ma soprattutto un viaggio interiore». «Il cervello mi cammina più delle gambe». «Ogni luogo mi fa riflettere su un episodio sacro. Lo spirito conta più della lettera». non bisogna confondere l’occasione di pensare con la sua causa. In realtà, anche quando ci troviamo in siti dall’attribuzione incerta – e in Terra santa e a Gerusalemme ce ne sono tanti – «dobbiamo cogliere la possibilità di esaminare minuziosamente un aspetto spirituale. I luoghi delimitano l’orizzonte, la riflessione lo apre. Ecco quindi il paradosso del pellegrinaggio: la verità che cerca non è quella della terra, ma quella del cielo. Non si riduce a una spedizione archeologica, per quanto ci somigli. I piedi non si incollano al suolo, volano sulle ali del pensiero».
Gerusalemme è più carica di memoria che di storia, una città simbolo e laboratorio della convivenza delle tre religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islam). Le commemorazioni delle diverse spiritualità o delle diverse nazioni – avverte lo scrittore francese – finiscono per pesare troppo. Lo studio del passato è però in grado «di sminare le frontiere identitarie che si sono instaurate di recente». Un tempo i mondi religiosi mostravano più porosità fra loro e certe trasgressioni erano frequenti, per esempio i musulmani che andavano sulla tomba di Maria a chiedere la grazia di un figlio. Non resta che – direbbe lo storico francese Vincent Lemire – guarire la memoria attraverso la storia. In questo senso, è necessario partire – come fu chiesto da Dio al Patriarca Abramo nel secondo millennio a.C. – per «aprire le braccia, il cuore e l’intelletto, a lasciar andare i pregiudizi, a farci carico della nostra debolezza, a coltivare la nostra fragilità. Senza le nostre crepe da dove passerebbe la luce? Il viaggio taglia, disperde, ricentra e poi giunge a termine».
In Terra Santa, a Gerusalemme Schmitt non può non misurarsi con il mistero. Spetta al nostro intelletto elaborare e processare le informazioni fino ad ammetterlo, «tocca al cuore accettarlo! Il mistero non sta nell’ignoto, ma nell’incomprensibile. Primo aspetto del mistero: come afferrare che Dio si faccia uomo? Che il senza tempo spunti nel tempo? Che l’eterno si vesta da effimero? Che il trascendente diventi immanente? L’Incarnazione sembra essere il primo enigma al quale acconsentire. Dio si è fatto carne, ossa, voce e sangue in Gesù». Il mistero indica dunque ciò che il pensiero non arriva a pensare. Esplorare il cristianesimo rappresenta per Schmitt sottoporsi ad una prova accompagnata da una vera e propria rivoluzione intellettuale. Infatti, agli occhi di molti, escludere il cristianesimo una volta per tutte soddisfa il buon senso. Ma in questo modo la ragione «non critica sé stessa, fa a meno di interrogarsi sui propri limiti, soffoca ogni velleità di curiosità che potrebbe toglierle la certezza della propria superiorità. Fredda e sdegnosa, la ragione si tiene a distanza dalla Rivelazione».
A Gerusalemme non puoi, inoltre, non incrociarti con la divisione, con il conflitto, plasticamente rappresentato dal muro di separazione tra Israele e Palestina. Un muro grosso, opaco, carcerario, una recinzione composta da lastre di cemento alte e spesse. Già la sua bruttezza costituisce uno scandalo. Il muro ostruisce ogni orizzonte, sia visivo che mentale, afferma Schmitt. E sancisce un fallimento. Non un fallimento dal punto di vista della sicurezza, ma un fallimento storico e politico, perché incarna l’impossibilità di arrivare alla pace. Costruito durante la seconda intifada nel 2002, periodo di intense aggressioni tra palestinesi e israeliani, viene solitamente presentato dai politici ebrei come provvisorio. Ma attenzioni alle considerazioni semplificate; occorre immergersi nella complessità della realtà, familiarizzare con la complessità della realtà. Del resto, un amico ebreo suggerisce a Schmitt: «Se capisci qualcosa della situazione odierna a Gerusalemme significa che te l’hanno spiegata male». Per Schmitt quel muro rappresenta l’essenza stessa della tragedia. Cos’è la tragedia?
È lo scontro tra due legittimità. Due campi avversi che si affrontano avendo entrambi ragione. «Qui non si tratta di una battaglia tra il bene e il male né di un attacco del vero contro il falso, si tratta di due concezioni del bene inconciliabili, di due verità che si escludono a vicenda. La storia umana si riduce a una tensione tra due elementi architettonici: il muro e il ponte. Funzionano in maniera opposta. Il muro divide, il ponte avvicina. Il primo vieta, il secondo permette. Uno esprime la diffidenza, l’altro la fiducia. È evidente che entrambi hanno la propria funzione. Ma preferisco i ponti ai muri».
È lo scontro tra due legittimità, quello tra israeliani e palestinesi. Due campi avversi che si affrontano avendo entrambi ragione. «Israele ha ragione, la Palestina ha ragione. I due paesi giustificano l’occupazione del territorio con una presenza lunga, ancestrale, lecita». Due volte ne sono stati scacciati gli ebrei: nel 587 a.C. ad opera dei Babilonesi e una seconda volta nel 70 d.C. ad opera dei Romani. Nel XIX secolo la diffusione dei nazionalismi e dell’antisemitismo in Europa spinge gli ebrei della diaspora a pensare seriamente la nascita di uno Stato ebraico. Nasce il movimento sionista, con il sogno di tornare in Israele. L’orrore assoluto commesso dai nazisti con lo sterminio degli ebrei ha sbloccato il progetto e nel 1948, con il sostegno dell’ONU, è stata proclamata la creazione dello Stato di Israele. Sennonché altre popolazioni occupavano legittimamente quella terra da duemila anni, popolazioni vissute sotto l’impero romano e poi ottomano, popolazioni diventate in larga parte musulmane e che parlavano arabo o turco. Nel 1947 i palestinesi e gli Stati arabi confinanti rifiutano il piano di spartizione dell’ONU. La violenza raddoppia. Quelle popolazioni vengono a loro volta espulse, subendo così dagli ebrei ciò che gli ebrei avevano un tempo subìto dai Romani. Si impugnano le armi e la situazione degenera. «Tale è la logica tragica: entrambi i blocchi hanno una propria legittimità non riconosciuta dall’avversario. Tale è la logica tragica: dato che nessuno ha ragione o torto, la forza si sostituisce al dialogo e al diritto. Tale è la logica tragica: il problema si ingigantisce e rimane senza via d’uscita». Eppure se contempliamo Gerusalemme da un qualsiasi punto alto della città vediamo davanti a noi, pietre che si accavallano e si confondono. Come dire che l’architettura mette insieme monumenti ebraici, cristiani e musulmani. Paradossalmente, da quella profusione trapela un’armonia. Il diverso si cancella, come se, staccandosi dalla terra, gli edifici che svettano verso il cielo riuscissero a trovare uno spazio di concordia. Le pietre riescono – osserva Schmitt – in qualcosa che gli uomini sono incapaci di realizzare: la coesistenza.
La sfida che Dio lancia a credenti e non credenti va oltre ciò che essi immaginano. «Dio non dice “Ascoltatemi!”, ma grida “Ascoltatevi!”. A Gerusalemme, in cui tutto è cominciato, niente è finito». La città tre volte santa, teatro di disaccordi interreligiosi, ci dà da riflettere. Dobbiamo fraternizzare gli uni con gli altri. Ebrei, cristiani, musulmani o agnostici, «Dio ci intima di misurarci con questo compito. A Gerusalemme più che in qualunque altro luogo Dio ci provoca, non solo ci spinge verso il divino, ma invoca la nostra umanità in ciò che essa ha di plurale, di composito, di incline all’armonia. Dio è il Padre? Allora bisogna concepire i tre monoteismi come tre fratelli. Saremo in grado un giorno di raccogliere la sfida di Gerusalemme?».