di Antonio Salvati
La recente pandemia ha oggettivamente segnato un vero e proprio spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. Siamo ormai abituati a considerare il tempo presente come un’epoca definibile post-Covid, le cui caratteristiche sociali sono già divenute in parte diverse da quella precedente. Le trasformazioni anche radicali che, a partire dall’emergenza sanitaria, hanno mutato significativamente molteplici aspetti dell’assetto sociale ci inducono a chiederci se continuerà a esserci in Europa una società diversa da quella attuale? E in che misura? I due sociologi Renato Mannheimer e Giorgio Pacifici, autori del volume recentemente in libreria, Occidenti. La nuova società (Jaca Book 2023 pp. 144, € 18,00), si sono chiesti se questa società del “dopo” sarà una società aperta, evoluta e civile. O sarà una società frammentata in mille provincie? Di tipo addirittura neo-medievale. Per i due studiosi dipenderà molto anche dalla politica europea, «dalla misura in cui cioè la classe dirigente d’Europa sarà capace di fare previsioni di fare previsioni fondate e scelte coraggiose, e da come gli esperti di comunicazione pubblica sapranno trasferire ai cittadini le loro decisioni, i loro orientamenti e le loro strategie». Certo, un’influenza profonda su questa società sarà rappresentata anche dalle modalità «dell’evoluzione della “grande trasformazione digitale” in atto in tutto il mondo che pure sta modificando profondamente il contesto sociale ed economico in cui viviamo e le modalità di relazione dei suoi abitanti».
In Italia, le costrizioni più importanti introdotte durante la pandemia, come quelle relative alla mobilità, hanno investito le nostre relazioni familiari e sociali con lo sviluppo di una sorta di “isolamento sociale”, con una rarefazione di contatti all’esterno. Secondo alcuni sondaggi e studi, è stato molto rivalutato il contesto familiare, a scapito di quello del mondo circostante, cosa che, per più di 7 italiani su 10, comporta una forte insoddisfazione. Certamente la pandemia ha generato una crisi sociale, che ha colpito in particolare gli individui e le famiglie più fragili. Si sono modificate le tipologie di consumo, con una crescita degli acquisti online, che hanno visto nel 2021 un incremento in Italia del 17% rispetto all’anno precedente. Cresce l’attenzione alla cura del proprio ambiente domestico, della propria casa. E anche il mercato immobiliare è risultato in crescita, al meno in certe zone. Ma l’effetto più preoccupante è stato l’ulteriore accentuazione del calo delle nascite, che si era verificato già negli anni precedenti. Curiosamente, al calo delle nascite ha fatto fronte un incremento dell’adozione di animali domestici, come se questi ultimi tendessero a sostituire l’assenza di figli. L’80% delle famiglie italiane possiede un animale domestico: era il 32% nel 2010. Nel nostro Paese vivono circa 60 milioni di animali domestici, a fronte di meno di 2 milioni di bambini da 0 a 3 anni. Un’altra tendenza emersa nell’ultimo periodo è rappresentata dalla tentazione, sempre più diffusa, di abbandonare le grandi città per andare a vivere nei centri più piccoli. Una scelta che è ovviamente facilitata dal diffondersi dello smart working. Ma la conseguenza principale del Covid è stata l’allargamento del divario sociale e reddituale e l’ampliamento dell’area della povertà.
I periodi di isolamento, l’assenza di informazioni accertate e verificabili sulla pandemia, le paure irrazionali che ne hanno rappresentato una conseguenza, hanno favorito l’ascesa di nuovi reali “poteri forti”, che hanno sostituito in larga parte i poteri tradizionali. Si tratta del potere dei social network e dei social media (e dei loro figli malvagi, gli hate groups) che non sono facilmente controllabili o circoscrivibili senza adeguati meccanismi di controllo europei. Il guaio è che i social media coniugano l’improvvisazione professionale con l’assenza di qualsiasi fondamento etico. La loro diffusione sta minando il potere televisivo. Il concetto di opinione pubblica risulta impoverito dai social media. Ormai esistono tante piccole “opinioni pubblico-private”, che tendono a strutturarsi con le caratteristiche settarie di una totale autoreferenzialità.
I due autori segnalano che il potere dei nuovi tecnologi, soprattutto di quelli che si occupano di cybersecurity – e quindi sono in un certo senso dei guardiani, dei custodi, ma anche degli arbitri –, è aumentato in misura esponenziale. Questo potere «è ancora meno circoscrivibile dall’esterno di quello dei social media in quanto, anziché notizie o immagini, essi manovrano oggetti (immateriali) sconosciuti alla maggior parte delle altre persone. Malgrado nelle loro conoscenze non vi sia nulla di magico o irrazionale, esse sono difficilmente accessibili, e fanno in modo che i nuovi tecnologi costituiscano una nuova specie di “casta”, ammirata, con forti disponibilità economiche, con relazioni strette con il mondo della finanza e quello militare-poliziesco». Le questioni sulla cybersecurity rinviano all’ampio dibattito sviluppatosi in Italia e in diversi paesi europei sulle nuove tecnologie emergenti e convergenti – e tra esse l’Intelligenza Artificiale – che possono trasformare radicalmente l’umano, ad esempio, cambiando il Dna, oppure controllando in maniera totale la vita umana. C’è chi parla di capitalismo della sorveglianza, del rischio di soggiacere alla “dittatura della tecnica”. Per Vincenzo Paglia dobbiamo affrettare la realizzazione di un’assise internazionale per il governo delle nuove tecnologie. Del resto, per il nucleare c’è stato un patto di non proliferazione; per il clima, dopo decenni, c’è stata la conferenza di Parigi. In questa prospettiva la Pontificia Accademia per la Vita, presieduta da Paglia, ha promosso nel 2020 un manifesto – la Rome Call for AI Ethics – con il quale si chiede a tutti gli stakeholder e alla società civile nel suo complesso di adottare principi etici, pedagogici e giuridici, nella realizzazione delle intelligenze artificiali. Il Papa ha parlato della necessità di passare dal pericolo di una algocrazia alla necessità di perseguire una algoretica. Non a caso, Papa Francesco, per la Giornata Mondiale della Pace del 1° gennaio 2024, ha preparato un testo che ha per titolo “Intelligenze artificiali e Pace”. Un settore nel quale l’applicazione dell’intelligenza artificiale è rischiosissima è il settore militare. Oggi con l’intelligenza artificiale – ha ricordato Paglia – si possono prendere decisioni e compiere azioni in campo militare senza un intervento umano diretto. Tuttavia, Paglia ha sottolineato che – evitando «la condanna della modernità con la cecità di chi non vuol comprendere» – le intelligenze artificiali possono diventare strumento di sviluppo umano e di promozione della pace. Infatti, l’utilizzo delle AI può facilitare e migliorare la qualità della comunicazione e la comprensione tra diverse culture, superando le barriere linguistiche e culturali.
La pandemia oggettivamente ha messo ulteriormente in luce disuguaglianze e ingiustizie nelle nostre società, con la speranza che dalla loro visibilità «avremmo anche potuto aspettarci sforzi proattivi e una volontà della collettività di apportare cambiamenti strutturali e politici verso una società più giusta e inclusiva della diversità». In realtà, mentre la popolazione europea (e mondiale) si stava lentamente riprendendo dal pesante lascito del Covid-19 e stava pianificando un lento e difficile post-Covid, si è verificato un nuovo evento traumatico e drammatico al tempo stesso: nella notte tra il 23 e il 24 febbraio 2022, la Federazione Russa, dopo avere dichiarato che non avrebbe condotto nessuna azione bellica contro l’Ucraina, ha deciso di intraprendere una “operazione militare speciale”, con spiegamento di vasti contingenti di uomini e mezzi, occupando militarmente una parte del Paese. L’angoscia dei Paesi europei per la guerra in corso è resa più acuta dalla paura che essa possa sfociare in un conflitto mondiale e dalla difficoltà di fare una previsione su quando e a che condizioni essa possa terminare. Il conflitto in Ucraina ha influenzato le elezioni politiche che si sono svolte in alcuni Paesi occidentali (Bulgaria, Danimarca, Italia, Lettonia, Svezia). Infatti, in questi paesi ha giocato un ruolo il timore che alcuni partiti storicamente al potere e ritenuti in certi periodi affidabili, non fossero tuttavia completamente in grado di affrontare la tempesta che si era abbattuta sull’Europa e che fosse necessario il ricorso a forze politiche, per così dire, più “aggressive e combattive”. In particolare, in diversi Paesi europei, alcuni di quei partiti sovranisti e populisti che fino ad allora erano stati esclusi dal governo. Hanno perduto molte delle loro posizioni di potere i partiti socialdemocratici, anche quando hanno registrato un incremento di voti e di seggi parlamentari. All’interno degli schieramenti di destra si è verificato anche un significativo spostamento di voti dai partiti più moderati a quelli più radicalizzati. Ciò non toglie che le forze politiche uscite da questa tornata elettorale dovranno comunque affrontare gli squilibri esistenti in Europa, ridurre i divari nello sviluppo tra le regioni, e, soprattutto, far fronte ai diversi egoismi nazionali.
Le considerazioni sviluppate dai due autori ci forniscono elementi utili per meglio prefigurare il prossimo futuro. Del resto, se risaliamo all’attacco terroristico dell’11 settembre 2001, poi al crac dei mutui subprime (2008), aggiungiamo la Brexit e l’elezione di Donald Trump (2016), per concludere con il Covid-19 e l’Ucraina, abbiamo vissuto oltre un ventennio all’insegna – direbbe Federico Rampini – dei «cigni neri», cioè «eventi statisticamente improbabilissimi, e che tuttavia sono accaduti, generando un impatto enorme. Turbati da tanti precedenti, vorremmo migliorare la nostra capacità di avvistare eventi apparentemente inverosimili. L’incertezza ci avvinghia, e coincide con una maggiore frequenza di eventi catastrofici». Pertanto, il futuro del vecchio continente – ci dicono i due autori – «si presenta, ancora una volta, incerto». Ed eventualmente – aggiungo – pieno di sorprese.