di Antonio Salvati
Esiste da tempo un ampio filone narrativo di pubblicazioni sul futuro della Sinistra. In tanti sono stati tentati dal desiderio di rivisitare e di rileggere il Novecento, il secolo della grande storia, con i suoi picchi e le sue drammatiche sconfitte, facendo rivivere, grazie al ricordo personale e dentro il proprio «tessuto psicologico e sentimentale», le polemiche aspre, gli errori e le scelte, molto spesso felici, compiute. Rievocando spesso, senza una separazione netta dall’esposizione sistematica, il calore e il sapore della propria passione politica, così comune a molte generazioni. Spesso si tratta di diari politici che ripercorrono le radici della sinistra, che da duecento anni è cultura di opposizione, di critica del potere e del privilegio, protezione dei lavoratori, difesa dei diritti umani, passione della realtà e non Realpolitik, aspirazione alla giustizia. Con uno sguardo sul futuro per ritrovare – in un tempo caratterizzato dalla progressiva scomparsa dei partiti di massa, anzi, di ogni “forma” (la famiglia, il quartiere, la Chiesa) – quella radicalità – che non è radicalismo, né estremismo – e quella tensione etica che è fondamento di ogni progetto di rinnovamento sociale e democratico. Come rimettersi in cammino? Anche Aldo Schiavone si è recentemente cimentato in questo sforzo dicendo la sua con il suo ultimo volume Sinistra! Un manifesto (Einaudi 2023 pagine 144, euro 12,00).
Il quadro del ragionamento di Schiavone considera che l’Italia è un insieme fragile, di frontiera, incompleto e sospeso. Pertanto, prepararlo «al tempo che ci aspetta – restituirgli il futuro – è ancora più difficile. Ed è il compito storico che abbiamo di fronte. Per esistere, oggi, qualunque movimento progressista deve riuscire a dar forma all’ignoto». Il nostro Paese è ancora alla ricerca del suo destino, pur sapendo che dovrà trattarsi comunque di un destino europeo (ma – si chiede giustamente Schiavone – in quale Europa?); «e gli occorre progettualità, respiro ideale proiettato verso il domani, inventiva nell’immaginare nuove forme di socialità: tutte cose difficili da riconoscere nel bagaglio culturale di quella tradizione tanto invocata dalla destra. Bisogna riuscire a renderlo evidente con la forza delle idee. In un tempo come quello in cui viviamo, l’avvenire – il prefigurarsi di un domani piú ricco di opportunità e di speranze – dovrà essere l’unico baricentro di uno schieramento progressista di nuovo in piedi, e di un’Italia che voglia ritrovare sé stessa. C’è perciò bisogno di un’autentica rivoluzione nell’etica pubblica e nell’intelligenza della sinistra, che riesca a coinvolgere il nostro intero popolo». Un mutamento drastico di prospettiva che costruisca un rapporto fra eticità, economia e politica «in grado di valorizzare tutta la potenza trasformatrice di cui oggi disponiamo grazie alla tecnica, se sappiamo disciplinarla secondo criteri orientati al bene comune». Che consenta a ciascuno di formarsi una visione del mondo fondata su quella «concezione integrale dell’umano che per la prima volta nella storia siamo in grado di assumere non come utopia ma come orizzonte politico». Una possibilità – questa – che il pensiero della destra non ha mai nemmeno intravisto, «intrappolato nelle sue gerarchie (di volta in volta, a seconda delle epoche e delle occasioni: prima la Nazione, prima gli italiani, prima i bianchi, prima i maschi, prima i cristiani, prima le famiglie regolari… e cosí via senza fine: c’è sempre qualcosa che può spezzare l’unità dell’umano, la condivisione di una cittadinanza che sta invece sfondando irresistibilmente ogni barriera)». Parte da qui la sinistra che aspetta di nascere.
Sinistra significa anche formarsi – e difendere – un’idea progressiva della storia, aggiunge Schiavone, sapendola proiettare, con le debite cautele e flessibilità, sulla politica e sulle sue vicende. Perché sia cosí – spiega Schiavone – non occorre recuperare vecchie filosofie. Né sostenere posizioni «ingenuamente ottimistiche; come dire che siamo nel migliore dei mondi possibili. Persuasione che potrebbe essere mille volte smentita dall’ininterrotta sequenza di tragedie di cui è disseminato il nostro passato, comprese quelle – certamente le peggiori – del Novecento europeo; e prima di tutte la piú atroce: lo Sterminio». Anzi, non bisogna mai dimenticare che il male – «il male come violenza assoluta e come sopraffazione assoluta, come negazione totale del “comune umano”» – è fortemente presente dentro di noi ben in profondità; fa parte di come oggi siamo, e come finora siamo stati: «è un pezzo tragicamente importante della nostra storia evolutiva». E ciò rende anche la piú definitiva delle catastrofi un’alternativa sempre possibile per tutti noi, che siamo una specie particolarmente aggressiva, oltre che molto curiosa di sé e del mondo: «e questo ci ha probabilmente salvato in piú d’una occasione. Né una interpretazione progressiva della storicità vuol dire ritenere che non si possano verificare arretramenti rispetto a conquiste già raggiunte e giudicate ormai acquisite, con regressioni anche disastrose». Occorre essere consapevoli che l’andamento generale dei processi storici ha sempre segnato per l’umano nel suo insieme un miglioramento – costante sui tempi lunghi – nella qualità della vita, sia dal punto di vista materiale, sia da quello della conoscenza e dell’etica: tanto nell’etica dei comportamenti individuali come di quelli pubblici.
In sintesi, il volume è ben configurato e ricco di considerazioni suggestive e nel complesso condivisibili, soprattutto nella parte relativa alla riflessione sulla funzione insostituibile dei partiti (il volume contiene interessanti considerazioni sulla progressiva scomparsa dei partiti di massa), sull’esigenza per la Sinistra di percorrere direzioni diverse – svincolandosi dalla catastrofe del socialismo e abbandonando alcuni feticci insanguinati del pensiero politico del XIX secolo come l’idea di nazione e quella dello scontro di classe (in termini strettamente economici e sociali, il capitale ha vinto la sua battaglia, questo è uno degli aspetti della rivoluzione che stiamo vivendo, e bisogna prenderne atto; «ha fatto scomparire cioè la classe operaia – o l’ha ridotta al minimo – dal cuore delle produzioni più importanti, grazie sempre alla nuova tecnica, e ha costruito un diverso rapporto con i nuovi lavori, nello stesso modo in cui l’avvento del capitale industriale aveva fatto sparire i contadini dalla scena della grande storia») -, sulla necessità che il nostro maggiore interesse “nazionale” – «per quello che l’Italia storicamente è e può realisticamente diventare – sta proprio nell’integrazione» (non nella separazione identitaria, come la destra vorrebbe far credere). Assai condivisibili le considerazioni dense di preoccupazione relative all’accrescere delle disuguaglianze. Infatti, la storia – sia più antica, sia recentissima – ha sedimentato nel nostro Paese grandi strutture di diseguaglianza, «che lo rendono estremamente fragile e che stanno compromettendo la sua vita civile e politica, e il funzionamento stesso della democrazia repubblicana».
Resta, tuttavia, una perplessità è relativa ai destinatari del Manifesto. L’autore stesso sottolinea che riportare i cittadini – e i giovani in particolare – alla politica «è dunque il primo compito di una sinistra tornata in piedi». Stare a sinistra questo innanzitutto significa, oggi: riconquistare alla politica lo spazio e il consenso perduti, ridarle sovranità, e con quest’ultima restituirle etica e conoscenza. Garantirle finalmente un orizzonte all’altezza dei problemi e delle opportunità che abbiamo di fronte». E, aggiunge, non c’è sinistra senza pensiero critico, non c’è sinistra senza mettere in questione l’ordine del presente. In tal senso, allora, possiamo dire che il nostro paese, l’Europa stessa, siano pronti a far proprio questo messaggio. In un paese dove l’analfabetismo funzionale è dilagante, dove la forma liquida della società indebolisce i legami, non è più forte la destra che predica forme identitarie che prevedono l’esclusione dalla propria visione di una parte dell’umano, che si concepisce sempre mettendo una qualche barriera tra sé stessa e il resto del mondo? Stare a sinistra non significa sognare un mondo diverso, partendo dal dare parola e voce a tutti.
Ci vuole un movimento educativo, culturale e politico dal basso che scuota il Paese dal torpore, dal populismo, dall’odio e dalla rassegnazione. Ci vuole un movimento che attraversi il Paese e che non si limiti ad essere “contro”. Ci vogliono persone pronte a ricostruire un tessuto umano, educativo e sociale in grado di alimentare la libertà e la solidarietà. Questo, può essere la base dell’essere di sinistra. Come auspicava Don Milani, urge dare parole vecchie e nuove a tanti, a tutti, perché, come ha evidenziato Heidegger, riusciamo a pensare limitatamente alle parole di cui disponiamo, perché non riusciamo ad avere pensieri a cui non corrisponde una parola. Le parole non sono strumenti per esprimere il pensiero, al contrario sono condizioni per poter pensare, come ha ricordato Umberto Galimberti riflettendo sulla condizione giovanile. Servono persone che si impegnino a favorire un clima adatto per la realizzazione della disponibilità di menti e cuori ad accogliere passioni, parole e visioni. Erri De Luca ha sostenuto che «per accogliere una rivelazione, grande o piccola che sia, basta a volte essere docili, termine che indicava in origine la disponibilità a farsi istruire».
C’è bisogno – come ben sottolinea Schiavone – di studio e di coraggio intellettuale. La costruzione di un diverso modo di essere non può fare a meno di impegnarsi per avere meno disuguaglianza (da non confondere con le differenze) e un’idea d’Italia con dentro più Sud, più mare, più Europa e più mondo. Insomma, rafforzare il senso di comunità. Nel 1930, di fronte all’ascesa dei totalitarismi, Martin Buber, pensatore ebraico, scrisse: «il mondo stesso ha il desiderio nostalgico di divenire comunità» ed auspicando il messianismo comunitario afferma di «fare il possibile e desiderare l’impossibile». Un sogno antiglobalista? Anche Zygmunt Bauman – anche lui di origini ebraiche – sosteneva che c’è una voglia di comunità attorno a noi e in noi. Anche se oggi – come sostiene Vincenzo Paglia – la dimensione comunitaria è qualcosa da reinventare visto il “crollo del noi” dei nostri tempi. Non a caso Bauman, nel suo saggio intitolato Retrotopia, propone di riprendere a coltivare una dimensione dialogica e comunitaria nella vita quotidiana. Auspicio che Bauman ha fortemente espresso alla fine della sua vita intrecciando il suo pensiero con quello di Papa Francesco togliendo «i destini e le speranze dell’integrazione dell’umanità dalle mani di coloro che comandano le truppe dello Scontro di civiltà … per affidarli agli incontri quotidiani tra vicini e colleghi … come genitori attenti o insensibili, compagni fedeli o sleali, vicini premurosi o gretti, colleghi sgradevoli o noiosi, e non certo in veste di rappresentanti di civiltà, tradizioni, fedi religiose o etnie separate da reciproca estraneità». Potremmo dire che questo è abitare il mondo globale ed essere di sinistra.