In ginocchio ci ribelliamo: una lotta contro l'ingiustizia razziale
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In ginocchio ci ribelliamo: una lotta contro l'ingiustizia razziale

La potente testimonianza di Michael Holding sul razzismo e la protesta sportiva, un richiamo alla lotta per l'uguaglianza e i diritti umani.

In ginocchio ci ribelliamo: una lotta contro l'ingiustizia razziale
Michael Holding
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1 Agosto 2023 - 09.16


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di Rock Reynolds

Mi inginocchio? Non mi inginocchio?

Dovrebbe essere un dilemma di facile soluzione, eppure, quando il giocatore professionista di football americano Colin Kaepernick si prostrò nel corso di una partita dell’NFL del 2016 e chinò il capo in segno di protesta contro l’ingiustizia razziale della società americana e la violenza brutale a cui la polizia sottoponeva un numero crescente di cittadini di colore, non tutti la presero bene. Molti presero apertamente le distanze da quel gesto semplice quanto rivoluzionario.

Tale protesta, che rischiò addirittura sanzioni da parte della lega, entrò di prepotenza, senza quasi rendersene conto, nel discorso pubblico e, da lì, direttamente nelle camere parlamentari di mezzo mondo. Pazienza se Donald Trump ne stigmatizzò forma e sostanza perché persino qui in Italia ci furono uomini politici che non persero l’occasione per porsi dalla parte sbagliata della storia e, comunque, per coprirsi di ridicolo, criticando qualcosa di cui, evidentemente, non avevano capito nulla.

In ginocchio ci ribelliamo (66thand2nd, traduzione di Milena Sanfilippo, pagg 331, euro 18,) di Michael Holding, stimato telecronista di Sky Sport ed ex-nazionale di cricket delle Indie Occidentale, rompe un digiuno durato una vita, affrontando un tema rimosso pericolosamente per chi, come lui, è figlio di due genitori di colore la cui pelle era di due sfumature di nero molto diverse, al punto che la famiglia della madre non fu per nulla contenta quando lei, di carnagione ambrata, decise di sposare un uomo molto più scuro.

Holding racconta perché non è più tempo di stare zitti, stizzendo inevitabilmente chi ancora si ostina a obiettare cose come, “In fondo, voi neri oggi state meglio”, “È passato tanto tempo dagli anni della schiavitù ed è ora di fare un passo avanti” oppure “Perché tutta sta caciara? Quel tizio, poi, con tutti i soldi che guadagna…”.

Ne In ginocchio ci ribelliamo, Holding si mette dolorosamente a nudo. Quando, dopo l’interruzione forzata di una partita e della relativa telecronaca, Sky decise di mandare in onda un breve servizio dello stesso Holding su Black Lives Matter, il movimento di opposizione al razzismo che si annida in ogni sfumatura della società americana come pure di molti altri paesi, la visione di quelle immagini aprì una falla nella diga dei sentimenti che per decenni aveva arginato la rabbia, la rassegnazione e l’umiliazione che covavano nel cuore dell’autore. Risultato: un pianto irrefrenabile trasmesso live di fronte a milioni di persone che commosse diverse personalità del mondo dello sport, a partire da Thierry Henry, stella del calcio francese, che telefonò immediatamente a Holding per dirgli di andare avanti a testa alta. Questo libro, dunque, è una raccolta di pensieri sparsi che fa tesoro delle parole di diversi grandi atleti di colore dalle idee molto chiare.

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Il libro di Holding si concentra, per scelta, sul razzismo in Gran Bretagna e negli USA, non solo perché l’autore ha vissuto in entrambi i paesi, ma pure per il ruolo da essi svolto. La Gran Bretagna era il più grande impero coloniale che, quasi per definizione, era fondato sulla sopraffazione. Gli Stati Uniti sarebbero, invece, sarebbero divenuti la principale potenza economica del mondo proprio sfruttando il lavoro gratuito degli schiavi africani.

Per non essere tacciato di tendenziosità, Holding cita in apertura del suo libro la definizione di razzismo dell’Oxford English Dictionary: «La convinzione per cui razze diverse possiedono caratteristiche, abilità o qualità distinte, allo specifico scopo di giudicarle inferiori o superiori le une alle altre». Per Holding, si tratta di una definizione alla base di un processo di disumanizzazione delle persone di colore che ha finito per convincerle in modo più o meno subdolo della loro naturale inferiorità. A detta di Holding, lo spartiacque della storia va rintracciato nella diffusione planetaria della stampa e nel quasi contemporaneo avvento del colonialismo su grande scala. «L’indottrinamento, il lavaggio del cervello e il comportamento acquisito erano già in atto da prima della tratta degli schiavi. Durante e dopo, tuttavia, si rafforzarono, proliferarono, divennero talmente inarrestabili… da incancrenirsi nella cultura della società. Il commercio di schiavi fu un sintomo, ma il virus era così contagioso che sarebbe mutato fino a diventare la malattia che conosciamo oggi.»

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Le cifre della tratta degli schiavi fanno orrore: decine di milioni di centrafricani strappati alle loro terre per soddisfare le esigenze di ricchi arabi, prima, e di proprietari terrieri del Nuovo Mondo, poi. Holding è chiaro: il suo libro non risparmia sgradevolezze. In fondo, nell’inferiorità dei neri rispetto ai bianchi entrata nel bagaglio delle nozioni comune di entrambe le razze c’è qualcosa di diabolico, alimentato nei secoli dalle pseudoscienze. Nomi altisonanti come Kant, Hume, Voltaire non avevano problemi a manifestare la convinzione assoluta della superiorità dei bianchi sui neri. Addirittura c’era chi, come il botanico svedese Linneo, teorizzava spiegazioni scientifiche delle differenze intellettuali e fisiche tra le razze. Solitamente, la pseudoscienza era un comodo strumento al servizio delle potenze europee impegnate ad ampliare la sfera di influenza coloniale e certo non dispiaciute di poter trovare una giustificazione inattaccabile a malefatte che venivano così mondate da qualsiasi censura morale. La disumanizzazione dei neri ne divenne lo strumento più potente. James Marion Sims, celebrato ancor oggi come il “padre della ginecologia moderna”, non aveva la minima remora a compiere raccapriccianti esperimenti su donne di colore incinte che metterebbero in ombra persino Mengele. Eppure, ci sono sue statue in molte città degli Stati Uniti, compresa una nel Central Park di New York di cui un gruppo di manifestanti nel 2018 chiese la rimozione. Perché i crimini contro l’umanità non si prescrivono. Anche questo andrebbe ricordato a chi sventola con furore il vessillo intellettualoide dell’avversione alla cosiddetta “cancel culture”, espressione tanto cara alle destre di mezzo mondo.

Holding è un fiume in piena e ricorda a chi si ostina a ritenere la battaglia di Black Lives Matter ipocrita e fuori tempo massimo che le statistiche parlano chiaro: in Usa e in Inghilterra, i figli dei neri «hanno maggiori probabilità di lasciare gli studi senza aver conseguito alcun titolo, più probabilità di finire in prigione, di vivere in povertà» e, cosa non sorprendente, di avere un’aspettativa di vita inferiore.

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In ginocchio ci ribelliamo commuove per la sua onestà e per il suo rigore. Che nel 2023 ancora ci sia qualcuno – milioni di persone, purtroppo – che si stizzisce per la scelta clamorosa quanto basica di uno sportivo famoso di inginocchiarsi e di non fare più finta di niente è quasi incomprensibile. Anche perché, come dice Holding, uguaglianza tra neri e bianchi non significa che questi ultimi debbano rinunciare ai loro diritti.

Fortuna che ci sono personalità dello sport, della cultura, del mondo dello spettacolo e via dicendo che trovano il coraggio per farsi promotrici di un messaggio semplice quanto improcrastinabile. Ne è un esempio la tennista Naomi Osaka, figlia di madre giapponese e padre caraibico e vincitrice di due US Open e due Australian Open. Malgrado la giovane età e malgrado le critiche, decise di indossare nel corso dello US Open del 2020, in piena epoca Covid, una mascherina personalizzata diversa per ogni partita, una mascherina recante il nome di una vittima afroamericana delle violenze insensate della polizia. O come l’asso della velocità, Usain Bolt, che racconta a Holding l’esperienza umiliante di quando una commessa lo giusdicò incapace di acquistare un orologio costoso in un negozio di Londra per via del colore della sua pelle. O, ancora, lo stesso Thierry Henry, convinto che la fama internazionale possa offrire una protezione dal razzismo e ancor più certo della sacralità della lotta antirazzista globale.

Perché, come ci ricorda Michael Holding, «se rimaniamo in silenzio… non succederà mai nulla. Se invece continuiamo a parlarne, ad agire e a farci sentire, prima o poi si passerà all’azione… Inginocchiarsi non è difficile. Bastano pochi secondi. Ma servono a tenere vivo il dibattito».

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