La vedova delle Highlands

Il tema deve essere stato caro pure a Walter Scott uno dei più grandi narratori scozzesi di sempre, vissuto a cavallo tra due secoli in un periodo estremamente gravido di grandi storie e prosatori nel Regno Unito.

La vedova delle Highlands
Walter Scott
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29 Maggio 2023 - 14.17


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di Rock Reynolds

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Il vecchio cuore di mamma, l’energia naturale che fa girare il mondo. Possibile che la forza travolgente di un amore così puro come quello possa acciecare una madre e offuscarne la capacità di giudizio? Quante volte ci capita di averne sotto gli occhi esempi lampanti nella nostra quotidianità.

Il tema deve essere stato caro pure a Walter Scott (1771-1832), uno dei più grandi narratori scozzesi di sempre, vissuto a cavallo tra due secoli in un periodo estremamente gravido di grandi storie e prosatori nel Regno Unito, come Jane Austen e Lord Byron, per citarne un paio. Scott non condusse certo un’esistenza avventurosa come molte delle sue opere lascerebbero intendere, ma di certo, secondo i suoi resoconti biografici, visse quasi perennemente al di sopra dei propri mezzi, dovendo fare i conti con una situazione finanziaria sempre in bilico a causa di uno stile di vita altoborghese che le vendite dei suoi libri faticavano a giustificare. Tutti conoscono la sua opera forse più celebre, Ivanhoe (1819), una delle poche ambientate fuori dalla natia Scozia, per giunta intorno all’anno 1194. A essa si fa risalire il successo del romanzo storico, insieme ad altri suoi libri leggermente meno celebri, come Waverley e Rob Roy.

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Ma torniamo al tema della madre che riversa sul proprio figlio unico un affetto debordante, rischiando di trasformare un sentimento sano quanto legittimo in un’ossessione, addirittura in una forma di controllo asfissiante. La vedova delle Highlands (Elliot, traduzione di Angiolo Bandinelli, pagg 115, euro 14,50) è il primo capitolo di una trilogia di racconti (o, se vogliamo, romanzi brevi) intitolata Cronache della Canongate, pubblicato nel 1827. La capacità di introspezione di Scott si manifesta con estrema forza nel suo racconto impostato su diversi piani narrativi, descrivendo con estrema modernità il quadro psicologico della controversa protagonista.

Elspat MacTavish, detta la “Donna dell’Albero” per via della grande quercia all’ombra della quale vive in autoimposto isolamento insieme a due capre, è la vedova di Hamish MacTavish, un temerario signorotto delle Highlands le cui gesta non esattamente aristocratiche ma i cui afflati decisamente più nobili gli hanno guadagnato un certo rispetto. Come scrive lo stesso Scott, la sua vita «era stata turbolenta e spericolata, le sue abitudini quelle di vecchio stampo delle Highlands, quando si stimava vergognoso non desiderare qualcosa che si potesse avere semplicemente prendendoselo». Le capacità affabulatorie di Scott sono sempre state uno dei suoi punti di forza e di certo una simile descrizione di quello che, di fatto, era un ladro di bestiame pone le basi per una storia più avventurosa. Pazienza se molti critici, persino a lui coevi, lo hanno tacciato di verbosità. In fondo, la moralità del suo personaggio «era del vecchio stampo delle Highlands: amici fedeli e fieri nemici. Le mandrie e i raccolti delle Lowlands erano roba loro, e ogni volta che avessero la possibilità di trafugare quelle e mettere le mani su questi, non badavano a scrupoli circa i diritti di proprietà». Ma, là dove la giustizia non può nulla, in un territorio selvaggio e infido come quello dei brulli picchi delle Highlands sferzati da un vento gelido, è la politica, come sempre, a segnare il destino delle persone.

Hamish MacTavish si schiera al fianco del principe Charles Edward Stuart contro il duca di Cumberland, figlio di re Giorgio II d’Inghilterra e soprannominato “Billy il Macellaio” per la durissima repressione a cui ha sottoposto i ribelli scozzesi, scelta che segna il destino di MacTavish, ora «messo al bando sia come traditore dello Stato sia come ladro e malfattore». Una scaramuccia con i militari filo-inglesi, in precedenza quasi assenti in quel territorio lontano, pone fine violentemente alle bravate incontrollate di MacTavish, gettandone la moglie nel più cupo sconforto. La vedova riversa le sue attenzioni sul figlio che del padre non ha quasi nulla. Ma è quel “quasi” a fare la differenza. C’è una nobiltà d’animo, un’ostinazione atavica nel giovane Hamish Bean MacTavish che lo spinge a rendersi presto conto di quanto i tempi siano cambiati e di come l’unico modo per onorare la memoria ardimentosa del padre sia arruolarsi in un reggimento dell’esercito britannico destinato alle colonie del Nord America. A nulla sembrano valere le perorazioni della madre, che non ne vuole sapere di privarsi della sua unica fonte di luce, ora che il marito non c’è più. La sua caparbietà e pure la sua astuzia sono il preludio di un inevitabile finale tragico che ribalta il senso stesso delle sue intenzioni. Perché, in fondo, quello scozzese resta un popolo libero e «le reclute delle Highlands difficilmente riuscivano a capire le implicazioni di un servizio militare che le costringeva all’impegno sotto le armi più a lungo di quanto fossero inclini; e forse, in molti casi, al momento dell’arruolamento non ci si prendeva abbastanza cura di chiarire a quelle giovani reclute la durata dell’ingaggio che sottoscrivevano, per paura che il chiarimento potesse far loro cambiare idea».

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Come detto, La vedova delle Highlands è un romanzo storico breve che, però, denota un’attenzione per il modo in cui il periodo storico e l’ambiente locale impattano sulla psicologia dei personaggi che anticipa i tempi. Naturalmente, la storia ha uno sviluppo narrativo intrigante che, malgrado si annunci fin dal principio con l’ineluttabilità di un fato avverso, è giusto che sia il lettore a scoprire.

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