di Rock Reynolds
Per il cittadino statunitense medio, quello sulla liceità della pena di morte è un dibattito ininfluente. Nato e cresciuto in larga parte nel rigore evangelico, il principio “occhio per occhio, dente per dente” della Bibbia viene inevitabilmente prima del “porgi l’altra guancia” del Vangelo.
Dati alla mano – cioè le statistiche sulla capacità della pena capitale di ridurre in Usa i crimini per i quali viene comminata – il potere deterrente della pena di morte è una credenza falsa tanto quanto popolare e difficile da estirpare. Me lo disse qualche anno fa un amico maestro del thriller internazionale che, da buon americano, dichiarò di non aver grosse remore contro la messa a morte di chi si fosse macchiato di reati orribili, ma di non apprezzare la mistificazione di tale condanna in quanto deterrente determinante.
Naturalmente più sottile e articolato è il discorso sul valore sociale della detenzione.
Di delitti, pene e castighi si è parlato tanto anche in campo letterario, ma non andrebbe mai scordato che il nostro ordinamento repubblicano e antifascista ha una visione chiara del tema.
L’articolo 27 della Costituzione italiana, infatti, sancisce che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Dunque, il nostro è un sistema riabilitativo, non punitivo. Se per quello, sappiamo bene che di leggi che restano lettera morta ce ne sono altre, come quella che condanna l’apologia del Fascismo.
Il dibattito pubblico sul fine riabilitativo del carcere non è mai stato realmente nell’agenda del governo italiano, di nessun governo, in quanto tema divisivo, tuttora figlio di preconcetti antichi che tutto sommato uniscono l’elettorato nella morsa di paure irrazionali. A nessun governo sorride l’idea di affrontare realmente una discussione costruttiva in materia, ben conoscendo il rischio di alienarsi una fetta dell’elettorato. Ma si tratta pur sempre di un tema di civiltà, oltre che di una lotta che la sinistra ha certamente rivendicato con maggior costanza e convinzione della destra. Le chiacchiere da bar finiscono per condizionare le aule parlamentari, proprio come sta succedendo in questi giorni con la questione posta dall’anarchico Cospito sulla liceità stessa del 41bis, nell’ambito di una discussione più ampia in cui l’Italia è stata più volte bacchettata dall’Europa per non aver ancora promulgato una legge seria sulla tortura.
Ecco che un libro come “Le prigioni rendono la società più sicura” – E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa (Mimesis, traduzione di Arabella Soroldoni, pagg 198, euro 18) di Victoria Law può contribuire a fare chiarezza su plateali mistificazioni della realtà che sono entrate nel corredo genetico del popolo americano e, con qualche piccolo distinguo, pure di quello italiano.
Giornalista freelance e attivista anarchica americana di origini cinesi, da adolescente Victoria Law ha commesso una rapina a mano armata come rito d’ingresso in una gang di Chinatown che le è valsa una condanna con la condizionale, consentendole però di entrare in contatto con i detenuti del famigerato carcere di Rikers Island, a New York, un’esperienza che le ha cambiato per sempre la vita.
Victoria Law spacca il capello in quattro e rovescia come un calzino il concetto stesso di inevitabilità della condanna al carcere per chi commetta determinate infrazioni al codice penale. Lo fa partendo da elementi fattuali di difficile confutazione. Per esempio, «il mito di vecchia data secondo il quale le prigioni e le carceri sono necessarie per proteggere le persone dagli alti tassi di criminalità, quando in realtà la criminalità violenta è diminuita del 51% negli ultimi venticinque anni». Non tenerne conto significa, secondo Victoria Law, strappare «gli individui alle proprie case, famiglie e comunità, causando danni incalcolabili».
Le posizioni di Victoria Law sono sicuramente dirompenti e probabilmente divisive, arrivando a teorizzare l’abolizione stessa delle carceri, una posizione non maggioritaria ma sempre più diffusa, soprattutto in considerazione del fallimento del carcere come ambiente di rieducazione del soggetto criminale in vista di un suo reinserimento nella società. Ma, attenzione, Victoria Law suffraga ogni sua rivendicazione con dati statistici ineluttabili e con ragionamenti finissimi che prendono le mosse da un elemento inquietante: «Gli Stati Uniti incarcerano decisamente più cittadini di qualunque altra nazione. Sebbene rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale, detengono quasi il 25% dei prigionieri del mondo, con 2,2 milioni di persone chiuse in prigioni e carceri». Sono numeri che fanno spavento e che, in qualche modo, sono riconducibili all’atteggiamento vendicativo di stampo evangelico di cui si è già detto. La convinzione che chi delinque non sia stato baciato dalla grazia di Dio e si meriti, dunque, un castigo di quello stesso Dio che non l’ha degnato della sua benevolenza non è una blasfemia gratuita. Anche perché il sistema penale prevede altre forme di supervisione e controllo, come «gli arresti domiciliari, il monitoraggio elettronico, la libertà condizionale e la libertà vigilata», forme di limitazione dei movimenti dei singoli cittadini che fanno salire il numero di persone soggette a un controllo correzionale alla quota stratosferica di 6,7 milioni.
A severo giudizio di Victoria Law, si è arrivati a questo punto perché è stata precisa intenzione degli Stati Uniti ripulire la società dalle scorie negative, facendo finire sotto il tappeto della reclusione tutta la polvere indesiderata. Insomma, un atteggiamento ancora una volta puritano e vessatorio. L’autrice non si sottrae, naturalmente a un breve excursus sulla nascita e sullo sviluppo del sistema carcerario in America, forse l’elemento meno interessante per il lettore italiano in quanto concepito in maniera diversa dal nostro. Ma, anche in funzione della sua stessa “diversità etnica”, non mancano stoccate forti e fondate a un sistema che predilige mandare in carcere cittadini di colore o di altri gruppi etnici minoritari. Non a caso, l’autrice cita l’attivista per i diritti degli afroamericani «Angela Davis: “Le prigioni sono diventati buchi neri in cui vengono depositati i detriti del capitalismo contemporaneo”. La focalizzazione sulla reclusione continua a distogliere l’attenzione (e le risorse) della società dalla mancanza di lavoro, di alloggio, di assistenza medica e psichiatrica, di istruzione di qualità e di prevenzione della violenza».
In effetti, è difficile credere alla capacità di deterrenza di un sistema che vanta 2,2 milioni di persone dietro le sbarre. E Victoria Law è convinta, dati alla mano, che privare una persona della sua libertà per strapparla al suo ambiente familiare e alla sua comunità sia quanto di peggio si possa concepire se poi la si getta in ambienti dominati da violenze e abusi come le carceri. Per questo, l’autrice snocciola una serie di dati che suggeriscono, piuttosto, «una correlazione tra la riduzione del numero di persone in carcere e la diminuzione della criminalità». Per esempio, a New York le incarcerazioni sono diminuite tra il 1994 e il 2014 del 55% a fronte di un calo del 58% del tasso di criminalità legato a reati gravi.
Forse, però, l’elemento più interessante dell’analisi fornita da “Le prigioni rendono la società più sicura” – E altri venti miti da sfatare sull’incarcerazione di massa è il rifiuto di accettare che una persona possa essere realmente riabilitata dall’esperienza carceraria se prima non è mai stata resa in grado di vivere in quella società.