Se una cosa è pericolosa da dire, canta
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Se una cosa è pericolosa da dire, canta

"Elvis", di Baz Luhrmann, è l'epico film sulla stella del rock'n roll. Nel film c’è il rapporto con la madre Gladys, strettissimo, privilegiato. Così esclusivo che non sembra un caso che Elvis si sposi solo dopo la sua morte. 

Se una cosa è pericolosa da dire, canta
Elvis di Baz Luhrmann.
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Valentina Mira Modifica articolo

12 Settembre 2022 - 14.10


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«Non conta che tu abbia fatto dieci cose stupide. A patto che ne faccia una intelligente». In Elvis di Baz Luhrmann la voce narrante non è quella del protagonista. È quella del colonnello Parker, il suo eccezionalmente controverso manager. Luhrmann riprende uno schema che ha già sperimentato nella sua versione del Grande Gatsby, solo che in quel caso il narratore diverso dal protagonista era una scelta obbligata, presa da Fitzgerald al posto suo. Eppure funziona anche qui. E funziona per almeno un paio di motivi: il primo è che è difficile empatizzare con un protagonista dalla parabola quasi cristologica che si racconta in prima persona; il secondo è che in realtà ci piace quando la voce narrante è quella di un potenziale disonesto.

Non c’è niente di meglio per far sentire lo spettatore meno stronzo che far raccontare una storia a uno stronzo. E poi il colonnello Parker è un personaggio a sé. Scappato da un orfanotrofio in Olanda, formato come imbonitore nei lunapark. Elvis è solo la sua ultima bestia da circo. Puro talento, giovane, facile da manovrare. In comune hanno l’americanissima convinzione sintetizzata dalla frase “sapevo di essere destinato alla grandezza”. Nella Grande bellezza – di cui, sia un caso o meno, sembrano qui esserci echi – quell’essere destinato alla grandezza era declinato alla romana, con placido cinismo, autoironia. (Si potrebbe permettere qualcosa di diverso chi vuole raccontare una città che ha già visto tutto? Gli Usa no. Gli Usa ci tengono ai loro miti di specialità. E continuano a raccontarceli).

Qui la parabola è appunto cristologica: è la storia serissima della stella che non teorizza, come Kurt Cobain, che “better to burn out than to fade away” (meglio esplodere che scivolare via), ma lo fa spontaneamente. Elvis stella che brucia per autocombustione. Non prima, però, di essersi trasformato in un supereroe da fumetto, sul palco. La metafora è sempre del colonnello Parker. È lui che si accorge che quel ragazzo con gli occhi truccati, i capelli buffi, vestito di rosa, quando canta si trasforma, funziona – vende. 

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“Capivo dallo sguardo di quella ragazza che provava sensazioni che non sapeva se fosse giusto godersi”, dice riferendosi alle fan che per Elvis impazzivano, anche perché davvero non sembrava corrispondere a uno stereotipo di genere, dato anche che era un trait d’union con musica della comunità nera. In quei tempi e luoghi era davvero una novità. Tant’è che il film ci racconta anche della denuncia per “reati di libidine e perversione”, e di qualche scontro tra fan e polizia.

Bellissima la scena in cui Elvis viene arruolato da Parker, ambientata significativamente in un labirinto di specchi di un lunapark. L’immagine deformata, e in più parti, come sa fare la fama restituendoti troppe immagini di te, inconciliabili e soprattutto in grado d’intrappolarti – come quel labirinto – nella domanda: dove sono io? Sono questo o quel riflesso? (Sono davvero un riflesso?). L’imbonitore lo vede solo, smarrito. È a questo punto che gli propone un patto piuttosto mefistofelico. Non è un personaggio positivo, Parker, no. E chissà quanti Parker ci sono vicino alle persone di puro talento, e se conosceremo mai i mille modi in cui chiedono loro di scendere a compromessi. Le piccole forme di resistenza o di cedimento quotidiane. Per noi non famosi è un mistero.

Nel film c’è il rapporto con la madre Gladys, strettissimo, privilegiato. Così esclusivo che non sembra un caso che Elvis si sposi solo dopo la sua morte. 

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L’amore è visto dal colonnello Parker come un pericolo, “la cosa più pericolosa di tutte”. Inizialmente Elvis riesce a tenerlo in una bolla, fuori dagli Stati Uniti, un amore da tende chiuse che pare l’opposto della sua dimensione pubblica, stancante. Lui rivela a Priscilla i suoi sogni, il fatto che vorrebbe fare l’attore. Lei crede in lui, “se hai un sogno ci riuscirai”. Peccato che lui non sia in grado di restituire una briciola di quella fiducia a una figura che evidentemente l’Elvis del film voleva simil-materna.

Oppure sono le pressioni a essere troppe. Prima tra tutte quella della voce narrante – Parker – che è contemporaneamente antagonista e mentore. Elvis prova a mollarlo più volte, e ogni volta lui lo ricompra usando il suo punto debole, la famiglia. Il padre ne esce da pusillanime, interessato meno al bene del figlio che alla questione economica, e visto che siamo nei tempi del #freeBritney l’eco della riflessione risulta attualissima. 

Il film è una splendida (e tragica) riflessione sulla fama. L’amore di Priscilla serve più che altro da contraltare a quello che sembra l’unico amore che conti, per l’Elvis di Luhrmann: quello collettivo, di massa. Una dipendenza, secondo Parker. “L’amore normale non era paragonabile”. Comunque, una delle scene più commoventi sarà proprio con lei, verso la fine del film.

Visto che però è un film su Elvis non si può evitare di dire che se il ritmo scorre veloce e la storia sa appassionare è soprattutto grazie alla colonna sonora, che poi è il motivo per cui le persone in sala non si alzano neanche durante i titoli di coda. Titoli di coda in cui succede in effetti una cosa divertente. Eminem ci regala un pezzo in cui si paragona a Elvis in maniera esplicita, perfino più arrogante del solito; ma pare che paghi di più il parallelo fatto direttamente da Baz Luhrmann, quello implicito con Damiano dei Måneskin. Gruppo italiano che in effetti nella cover di If I can dream dà il meglio.

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Il paragone non è neanche prettamente musicale, ha più che altro a che fare con l’effetto che Elvis faceva alle donne e non solo. Quell’entusiasmo di quando hai davanti un uomo talentuoso che non ci tiene a corrispondere a uno stereotipo. Mettiamo da parte che in Italia va di moda vergognarsi di apprezzarne perfino la palese presenza scenica, il carisma insomma. Ma tendenzialmente il parallelo che fa Luhrmann è interessante, palese, ed è esattamente quello lì. Bizzarramente, fa suo o quantomeno rende conto di una sorta di female gaze di massa. 

Visto che, infine, è un film che parla anche di quanto c’è di brutto dietro la bellezza, e lo fa con un’estetica preziosa, molto vicina a quella di Gatsby – caleidoscopi di gemme, cose così – non si può che provare a portare un effettivo punto di vista femminile. Non di massa, in questo caso. E cioè che, forse, di parabole cristologiche con un famoso al centro si è anche un poco stanche. Se poi la riflessione è su quanto sia impossibile emergere in un sistema capitalistico senza vendere letteralmente l’anima al diavolo o al colonnello Parker di turno, continuiamo a farla, ma magari un po’ più esplicita. E, se non è possibile perché essere troppo espliciti dà fastidio a qualcuno, si può sempre seguire il consiglio del film: «Se una cosa è pericolosa da dire, canta».

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