Buonista. Politicamente corretto. Sovranista.
Fino a ieri non v’era alcun bisogno di questi termini. In fondo, il fascismo veniva considerato un male e ammantarlo di un’aura benevola non sarebbe bastato a farlo accettare come qualcosa di normale. Le cose buone e giuste erano biblicamente inappuntabili e nessuno si sarebbe sognato di definirle politicamente corrette. Chiamarle tali avrebbe equivalso a ribaltarne il senso: una persona in grado di esprimere pensieri umanamente positivi e di tradurli in azioni edificanti era buona e a pochissimi sarebbe passato per la testa di irriderne le intenzioni con il degradante surrogato di “buonista” che, in realtà, cela un epiteto sotto una maschera di sarcasmo. Non ce ne sarebbe stato bisogno.
E che dire della cosiddetta cancel culture, per approdare alla quale c’è addirittura stato bisogno di scomodare la lingua inglese, dato che, a quanto pare, la nostra non sembrava in grado di esprimerne adeguatamente il concetto? Non si tratta di cancellare qualcosa o, come qualcuno vuole far intendere, di riscrivere la storia. Però, mettere qualche puntino sulle “I” in nome di giustizia e illuminismo non è mai sbagliato e il coraggio dell’autocritica è una delle principali virtù di una democrazia moderna degna di tal nome. Anche perché l’intestazione di una strada, una piazza o un’istituzione a questo o a quel personaggio viene fatta in un preciso momento, con intenzioni chiare. Ci possono, forse, essere dubbi sul fatto che battezzare un luogo in onore di qualcuno implichi la celebrazione delle sue gesta agli occhi del mondo, un mondo sempre più globalizzato, proprio come dovrebbe essere il concetto stesso di giustizia? Senza un’equità che riconosca pari dignità a paesi, culture e gruppi colonizzati rispetto ai colonizzatori, il mondo non crescerà mai. Così come un paese che metta sullo stesso piano un martire e un aguzzino, scrivendone il nome sul cartello indicante un corso o uno slargo, non può aspirare a mettersi alle spalle le brutture di un passato non sempre irreprensibile.
Si tratta di una materia controversa quasi del tutto assente dai tavoli pubblici italiani. Eppure, in un momento difficilissimo come quello attuale per la democrazia americana, negli USA la discussione è più che mai viva, soprattutto grazie al movimento “Black Lives Matter”, che ha alimentato un dibattito aperto: della serie togliamo le statue dei generali confederati e apertamente schiavisti dalle piazze! A tale proposta, peraltro, ha aderito una comunità trasversale di intellettuali secondo i quali tali statue non andavano distrutte bensì collocate in musei o altri spazi adeguati, illustrandone debitamente il percorso umano e storico. Diverso è il discorso relativo a Cristoforo Colombo, non certo riconosciuto come eroe dalla comunità dei nativi, in quanto portatore più o meno inconsapevole di un destino tragico e, nel lungo termine, della cancellazione – quella sì, vera – di un popolo e di una cultura, divenendo faro di un fastidioso nazionalismo di stampo cristiano tuttora dominante.
A proposito di nazionalismo, chi ha partorito il termine sovranismo lo ha fatto per sdoganarne un altro ben più scomodo. Non v’è nulla, infatti, che faccia stizzire un fascista, più che essere definito tale in pubblico, laddove, in un consesso di camerati, la stessa etichetta otterrebbe un saluto romano compiaciuto, con tanto di slogan e tacchi sbattuti. Oggi, meno che mai, il termine sovranismo andrebbe sbandierato. Il concetto stesso di stato nazionale fa comodo a chi vuole perpetuare in eterno una forma più o meno sottile di dominanza, temendo viceversa l’assimilazione al “pericoloso” calderone globale dell’umanità. Ciò, evidentemente, sottende la necessità di parificare valori appartenenti a diversi percorsi storico-culturali e a ribaltare posizioni e giudizi tendenti all’assoluto, sulla scorta del colonialismo. Non si tratta, come sostiene qualcuno, di operare un rischioso revisionismo storico. Semmai, di un percorso di ricerca di una verità più ampia e condivisa.