di Lucia Mora
La serata delle cover e dei duetti di Sanremo desta sempre molta curiosità perché, spesso, sa regalare bei momenti coinvolgendo grandi artisti e artiste e omaggiando pezzi indimenticabili.
Ecco il meglio e il peggio delle performance della quarta serata del Festival.
IL MEGLIO
Noemi – (You Make Me Feel Like) A Natural Woman (di Aretha Franklin). Scritto nel 1967 dalla cantautrice Carole King con l’ex-marito Gerry Goffin per Aretha Franklin, questo brano è diventato un classico della musica americana e della musica soul di tutto il mondo. L’ispirazione venne dal produttore della Atlantic Records, Jerry Wexler, il quale durante i suoi studi di cultura musicale afro-americana si trovava a rimuginare sul concetto “dell’uomo naturale” e chiese a King di trarne un testo per Aretha Franklin. Accostarsi alla voce di una gigante come Franklin è una bella impresa. Come se l’è cavata Noemi? Discretamente. Eguagliare era impossibile, ma è comunque riuscita a realizzare un’interpretazione personale che, finalmente, valorizza la sua voce.
Le Vibrazioni – Live and Let Die (di Paul McCartney) con Sofia and The Giants. Pur comparendo sotto il nome di McCartney, Live and Let Die non esisterebbe senza l’apporto della moglie Linda Eastman, della sua band – i Wings – e di George Martin, storicamente definito “il quinto Beatle” per aver realizzato in qualità di produttore la maggior parte delle registrazioni dei Fab Four. Il brano fu esplicitamente commissionato per il film “Agente 007 – Vivi e lascia morire” del 1973 ed è ancor oggi uno dei temi di maggior successo tra le colonne sonore targate James Bond. Le Vibrazioni ne eseguono una versione spudoratamente identica. Per carità, molto bella, ma è bella perché somiglia all’originale. Niente di più, niente di meno.
Emma – …Baby one more time (di Britney Spears) con Francesca Michielin. Ovvero il singolo che nel 1998 ottenne un successo a dir poco planetario e che rese Spears una delle più affermate pop star di sempre. Eppure all’Ariston si è sentita una versione che, almeno per me, supera l’originale. Emma e Francesca Michielin sfruttano l’affinità che le unisce in una performance molto affiatata e riuscita, dominando il palcoscenico e dando alla canzone una nuova veste più graffiante. Bravissime.
Gianni Morandi – Medley con Lorenzo Jovanotti. Come si è detto fin dalla prima serata, Morandi partecipa a questo Festival per divertirsi. Il duetto con Jovanotti ne è la dimostrazione più bella. Saltano, ridono, si abbracciano: la musica passa quasi in secondo piano, ma non importa. È talmente bello vederli giocare insieme che il medley alla fine è solo un pretesto. E va bene così.
Mahmood e Blanco – Il cielo in una stanza (di Gino Paoli). Nel 1960 Gino Paoli era talmente giovane e sconosciuto da non essere nemmeno iscritto alla SIAE e, per questo motivo, nei crediti delle varie versioni del disco figurano Mogol come autore del testo e Toang compositore della musica; solo successivamente sarà depositata con la firma corretta del solo Paoli. A scolpire il brano nella storia penserà invece Mina, del resto avvezza a donare l’immortalità con la propria voce (La canzone di Marinella ne sa qualcosa). Mahmood e Blanco non sono Mina, ma riescono ad affrontare questa colonna portante in maniera impeccabile. Nulla da eccepire.
Aka7even – Cambiare (di Alex Baroni) con Arisa. Quello di Aka7even è un doppio omaggio: anzitutto ad Alex Baroni, cantautore milanese scomparso nel 2020. La sua Cambiare è anche un tassello importante nella storia delle Nuove Proposte di Sanremo grazie a cui Baroni si aggiudicò il premio “Miglior Voce del Festival” e il “Premio Volare”; il secondo omaggio è all’artista con cui duetta, Arisa, che l’anno scorso ha più volte sostenuto in veste di “insegnante di canto” l’alunno durante il suo debutto e successo ad “Amici”. Si vede infatti che tra loro c’è intesa, entrambe le voci funzionano e il doppio omaggio riesce alla grande.
IL PEGGIO
Giovanni Truppi – Nella mia ora di libertà (di Fabrizio De André) con Vinicio Capossela. Wow, che scelta. Nella mia ora di libertà (1973) è una sorta di testamento spirituale di De André; non quanto Anime salve, ma contiene comunque l’essenza dei suoi valori, trattandosi di un inno anarchico. Non a caso è la canzone che chiude Storia di un impiegato, il concept album che il cantautore dedica a un giovane impiegato che decide di ribellarsi al potere («non ci sono poteri buoni», recita il testo di Nella mia ora di libertà). Veniamo all’esibizione. Qui c’è un duetto che un po’ stona: da un lato abbiamo Truppi, che continua a cantare come se lo stessero obbligando con una pistola alla testa; dall’altro c’è Capossela, che invece – pur essendo un noto introverso – esegue il brano perfettamente. Bella e azzeccata la comparsa di Mauro Pagani con l’armonica, che aggiusta un po’ lo squilibrio nel duetto. Non una performance indimenticabile, ecco.
Yuman – My Way (di Frank Sinatra) con Rita Marcotulli. Il titolo originale sarebbe Comme d’habitude, un brano proveniente dalla tradizione cantautorale francese. Sinatra la incise con il titolo My Way nel 1969 e ne fece un inno all’individualismo americano spesso travisato, come dimostra l’utilizzo della canzone al ballo inaugurale della presidenza Trump. In realtà, Sinatra canta le riflessioni di un individuo che ripensa al proprio viaggio, soddisfatto di essere riuscito a cavarsela “a modo proprio” nella vita. Se la cava a modo proprio anche Yuman che, sebbene non abbia azzeccato la scelta del brano (abbastanza distante dalle caratteristiche del suo timbro), continua a essere una delle voci migliori di questo Festival.
Sangiovanni – A muso duro (di Pierangelo Bertoli) con Fiorella Mannoia. A muso duro (1979) è il cavallo di battaglia di Bertoli, perché ne racconta la fiera determinazione con cui il cantautore ha sempre portato avanti le proprie battaglie (in questo caso, contro i produttori discografici e le logiche di mercato). Sangiovanni è un gran furbetto. Sa di non essere all’altezza di questo brano, quindi chiama un mostro sacro come Fiorella Mannoia a tamponare – come sempre egregiamente – l’interpretazione di un giovane che non pare dar granché peso al testo e al suo significato.
Elisa – Flashdance… What a feeling (di Irene Cara). Scelta curiosa per Elisa che punta sul singolo tratto dal film Flashdance e vincitore dell’Oscar per la migliore canzone nella cerimonia del 1984. Come Le Vibrazioni, anche Elisa esegue una versione ortodossa e fedele, senza particolari variazioni personali. Bella però l’idea di coinvolgere Elena D’Amario, talentuosa ballerina e coreografa, in pieno spirito Flashdance.
Achille Lauro – Sei bellissima con Loredana Bertè. Sei bellissima (1975) è una delle canzoni più note di Loredana Bertè: il suo primo 45 giri a raggiungere la top 10 e, allo stesso tempo, a superare la soglia delle centomila copie, nato e ispirato dalla storia d’amore con Adriano Panatta. Se all’Ariston avessero spento il microfono di Lauro (poco avvezzo a brani con più di due accordi) lasciando solo quello di Loredana Bertè sarebbe stato tutto perfetto.
Matteo Romano – Your Song (di Elton John) con Malika Ayane. Il singolo del 1970 è considerato uno dei capolavori di Elton John, autore della musica; il testo è invece di Bernie Taupin, storico braccio destro di Sir Elton, che lo scrisse per la ragazza dell’epoca il 27 ottobre 1969. Your Song è uno di quei pezzi sempreverdi che ai karaoke vanno fortissimi, ma interpretarlo come si deve non è affatto facile. Matteo Romano non ci riesce granché e Malika Ayane non è di alcun aiuto.
Irama – La mia storia tra le dita con Gianluca Grignani. Ironia della sorte, Grignani presentò La mia storia tra le dita proprio al Festival di Sanremo (categoria Giovani) nel 1994 e questo gli consentì di qualificarsi poi per l’edizione del Festival dell’anno successivo. Non è un mistero che Grignani non sia più in forma come allora e il duetto con Irama – neanche lui particolarmente in bolla – ne risente. Grignani prosegue per una strada tutta sua, Irama prova a inseguire ma ormai la performance è rovinata. Maluccio.
Ditonellapiaga e Rettore – Nessuno mi può giudicare (di Caterina Caselli). Singolo che ha fatto la storia della musica italiana. Inizialmente destinato ad Adriano Celentano, venne poi affidato a una allora poco conosciuta Caterina Caselli, dopo essere stato accantonato (per fortuna) dal Molleggiato. Dico “per fortuna” perché Caselli ha padroneggiato la canzone e, viceversa, la canzone ha reso iconica e immortale Caselli. Ci si poteva aspettare un po’ di più dalla performance di Ditonellapiaga e Rettore in termini di originalità.
Iva Zanicchi – Canzone (di Don Backy e Detto Mariano nella versione di Milva). La “Canzone” di Don Backy del 1968 valse a Milva il terzo posto al Festival di Sanremo. Scelta difficile che Iva Zanicchi non affronta nel migliore dei modi. Sembra infatti una versione alternativa dell’inedito con cui è in gara (Voglio amarti) sia nella tecnica di canto (la stessa identica, troppo urlata) sia nell’impostazione della canzone (l’uso della chitarra elettrica, per esempio). Niente di speciale.
Ana Mena – Medley con Rocco Hunt. Ed è subito villaggio vacanze (“su le mani!”). Un medley tra Alan Sorrenti e Julio Iglesias di cui nessuno, veramente nessuno sentiva il bisogno. Ana Mena si impegna ancora una volta a rendere indimenticabile la sua presenza a Sanremo. Bene così.
La Rappresentante di Lista – Be My Baby (di The Ronettes) con Cosmo, Margherita Vicario e Ginevra. Brian Wilson, fondatore dei Beach Boys, ha definito Be My Baby “la più grande canzone pop mai creata”. Date le premesse ci si aspetterebbe una performance energica e coinvolgente. Aspettative deluse.
Massimo Ranieri – Anna verrà (di Pino Daniele) con Nek. Anna verrà è la grande e splendida dedica che Pino Daniele fa all’attrice romana Anna Magnani, scomparsa nel 1973. L’omaggio a Magnani nasce da un messaggio di speranza per un futuro senza atrocità, a partire dalle sensazioni evocate dal capolavoro del neorealismo “Roma città aperta” di Roberto Rossellini: nel film la “Sora Pina” interpretata da Magnani viene uccisa dai nazisti ed è da quella scena che parte la canzone di Daniele. Peccato per l’interpretazione scialba e monotona di Ranieri e Nek: dal secondo non è che ci si aspettasse granché, ma il primo poteva sicuramente fare meglio.
Michele Bravi – Io vorrei… non vorrei… ma se vuoi (di Lucio Battisti). Michele Bravi si esibisce sulle celeberrime note di Battisti e Mogol del 1972, dall’intramontabile album Il mio canto libero. Il tema del brano è l’indecisione di un uomo di fronte a una nuova storia d’amore, risolta poi nella consapevolezza che al cuor non si comanda. Michele Bravi non ne esce molto bene. Non è un brano adatto alla sua voce e la tendenza a bisbigliare come se non volesse farsi sentire dopo un po’ stanca e appiattisce.
Rkomi – Medley Vasco Rossi con Calibro 35. Uno che ha una voce monotona che dedica il medley a uno che sulla voce monotona ha costruito una carriera. Torna tutto. Spiace solo per i Calibro 35 e per la loro ottima prestazione musicale.
Highsnob e Hu – Mi sono innamorato di te (di Luigi Tenco) con Mr Rain. Un brano meravigliosamente straziante, quello di Luigi Tenco. «Mi sono innamorato di te / e adesso non so neppure io cosa fare / il giorno mi pento d’averti incontrato / la notte ti vengo a cercare». Che poeta, Tenco. Che disastro, Highsnob e compagnia. Una delle cover peggiori della serata. A mani basse.
Dargen D’Amico – La bambola (di Patty Pravo). Immagina essere una donna che, nel 1968, canta lamentele femminili che chiedono rispetto all’uomo, sentendosi trattata come fosse “una bambola”, usata a piacimento e poi abbandonata. Una delle più efficaci provocazioni femministe ante litteram. Di provocatorio Dargen D’Amico ha solo il modo di reinterpretare questo brano. Costruire un remix da spiaggia su un testo che dovrebbe evocare tutt’altro non mi pare un colpo di genio. Così, a naso.
Giusy Ferreri – Io vivrò senza te (di Lucio Battisti) con Andy dei Bluvertigo. Si diceva prima di brani resi eterni dalla voce di Mina… Giusy Ferreri si impegna anche e si vede, ma il paragone non regge minimamente e, di conseguenza, la sua cover non funziona. Bello il contributo al sax di Andy, se solo non fosse durato pochi secondi.
Fabrizio Moro – Uomini soli (dei Pooh). Come Elisa, anche i Pooh hanno partecipato a Sanremo una sola e unica volta, nel 1990. E anche loro, come Elisa, hanno trionfato, vincendo quell’edizione con Uomini soli. Anche quello di Fabrizio Moro è un trionfo: la banalità e il tedio sparano i coriandoli. Maracaibo.
Tananai – A far l’amore comincia tu (di Raffaella Carrà) con Rose Chemical. Testo di Cristiano Malgioglio e voce di Raffaella Carrà: A far l’amore comincia tu è l’emblema della provocazione, soprattutto considerando che parliamo del 1976. Il brano ha inoltre il merito di far capire a Tananai che meno sale con la voce e meglio è. Resta insopportabile la moda del villaggio vacanze che lo accomuna ad Ana Mena e a Dargen D’Amico. Abbiate pietà.
Appuntamento a domani per la finale sanremese.