Il cinema e la conoscenza del passato: Giovanni De Luna legge la settima arte come documento e agente di storia
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Il cinema e la conoscenza del passato: Giovanni De Luna legge la settima arte come documento e agente di storia

Edito da Utet, 'Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani' di Giovanni De Luna propone una sfida ermeneutica: indagare gli eventi trascorsi in modo filologicamente corretto interrogando il cinema

Il cinema e la conoscenza del passato: Giovanni De Luna legge la settima arte come documento e agente di storia
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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

13 Dicembre 2021 - 14.58


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Ormai da qualche decennio la riflessione storiografica ha ampliato il concetto di fonte, valutandola in un’ottica più dinamica. Questo cambio metodologico ha prodotto notevoli risultati nella ricostruzione del passato, grazie all’assunzione come documento di prodotti culturali solitamente esclusi dall’indagine storica, come i mezzi di comunicazione di massa, nelle loro varie forme. Tra gli studiosi che si sono mossi in questa direzione va senz’altro annoverato Giovanni De Luna, la cui esperienza accumulata in questo campo si è materializzata in un volume di grande interesse, Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani (Utet, pp. 332, € 20 a stampa, € 9,99 eBook), col quale l’autore propone una sfida ermeneutica: indagare gli eventi trascorsi in modo filologicamente corretto interrogando il cinema come fonte capace di rintracciare quegli aspetti non illuminati dalla ricerca storica tradizionale.

Tra le decine di pellicole passate al vaglio molte mettono in scena la storia, ma qui si considera che “un film ‘storico’ ci dice molto di più sul presente in cui viene realizzato che sul passato che racconta”. Il cinema, dunque, è uno strumento per narrare la storia, ma anche un documento per conoscere il passato, e De Luna porta avanti il suo discorso intrecciando i nodi interpretativi proposti dalle pellicole investigate al dibattito storiografico sugli stessi argomenti, così da creare un incisivo affresco. Indicativa a tal proposito l’attenzione posta alla narrativa filmica sulla Resistenza, ripercorsa da quella prodotta nel primo dopoguerra (caratterizzata dalla memorialistica e dalla dimensione spontaneistica dell’esperienza partigiana), alle opere degli anni ’60, dopo un decennio di rimozione e di censura (le prime a fare i conti con il fascismo e a segnare il riaffacciarsi impetuoso dell’antifascismo sulla scena politica), ai grandi affreschi di soggetti collettivi degli anni ’70, all’interesse sulle vicende individuali delle pellicole del decennio successivo, ai film contro la Resistenza degli anni ’90, nell’infuriare della stagione revisionista, con il tentativo di delegittimare la “scelta” dell’antifascismo come regola di comportamento morale.

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L’impianto critico segue però anche un terzo, fecondissimo percorso: il cinema come “agente di storia”, elemento in grado di “costruire” la storia, “incidendo sui comportamenti, sulle scelte, sulle abitudini di un pubblico vastissimo che ai suoi racconti si ispira nella vita reale, trasformando le immagini che scorrono sullo schermo in modelli sui quali plasmare la propria quotidianità”. Su questo terzo approccio, sul modo in cui la settima arte è stata coinvolta nel progetto di “fare gli italiani”, cioè come agente di una costruzione identitaria nazionale, si sofferma la seconda parte dello studio.

La prima delle numerose opere analizzate in tal senso è La presa di Roma (1905), che ricostruisce l’episodio della “breccia” di Porta Pia del 1870, la cui portata simbolica fu dilatata proprio dal film, che “mise le prime pietre per l’edificazione di un mito che sarebbe stato un cardine della nostra religione civile almeno fino a oggi”. Il viaggio nel tempo prosegue con Cabiria (1914), lungometraggio sulla epica lotta tra Roma e Cartagine, idoneo a recuperare lo spirito del tempo: da strumento per raccontare le vicende del III secolo a.C., Cabiria si trasforma in una fonte preziosa per la conoscenza storica degli albori del ’900. Si affronta poi il cinema dei “telefoni bianchi”, genere di evasione che durante il fascismo si propose di raccontare un mondo sideralmente lontano dalla realtà, e che mise in scena determinati aspetti della società italiana, rispecchiandone gusti, tendenze, comportamenti, “divenendo il collettore e il catalizzatore delle sue pulsioni”. Nel capitolo “Gli italiani in camicia nera” si ripercorrono le varie fasi del fascismo attraverso pellicole di generi diversi, dal documentario propagandistico al bellico, coi quali si decifrano i termini dell’autorappresentazione propagandistica del regime, il suo universo sociale, il suo progetto di costruire l’“uomo nuovo” fascista.

Anche nell’Italia repubblicana il cinema rappresentò i tratti salienti di un Paese prima povero e disperato, poi profondamente mutato da uno sviluppo economico improvviso. Il neorealismo diventa così una preziosa testimonianza del periodo della ricostruzione, poiché alcuni dei suoi film “possiedono un potenziale informativo sull’Italia di allora che non è facile trovare in altre fonti” (Ladri di biciclette, Sotto il sole di Roma, L’onorevole Angelina, La terra trema, tra gli altri), mentre la commedia all’italiana diviene lo specchio della grande trasformazione che interessò il boom economico, senza la quale “resterebbe amputata di alcuni suoi aspetti più legati al costume e all’antropologia della nostra società”, senza tralasciare i film in grado di illuminare il lato oscuro del “miracolo” (come I magliari, che del suo tempo “ci restituisce più le ‘rotture’ che le ‘continuità’”), i quali assurgono “a fonte storica che permette un’interessante avventura conoscitiva nel meandri del cambiamento che travolse l’Italia di allora”.

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Adeguato spazio è dato all’epoca riassunta in un denso capitolo dal titolo icastico, “Il ’68 prima del ’68”, che analizza film dove appare in nuce l’intreccio tra mobilitazione politica e i fermenti generazionali nei suoi aspetti di massa. Visto in questa prospettiva, il cinema ci permette poi di esplorare il decennio seguito al 1968, poiché riassume in sé i temi caldi del periodo: la critica alle istituzioni, il radicalismo, l’affermazione di una comunità alternativa (Discutiamo, discutiamo), l’acuta sensibilità alle esperienze storiche contemporanee (Seize the Time), il concetto “Sei quello che fai” (Lettera aperta a un giornale della sera), la lotta contro “l’apparato della forza” dello stato (Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto), lo sviluppo del movimento studentesco e l’incontro con il mondo operaio e con le piazze delle città (La classe operaia va in paradiso), e perfino la prefigurazione della dissoluzione della classe operaia (Viaggio nel FIAT-Nam). Si giunge così alla stagione del terrorismo, delle stragi di stato e dei servizi segreti deviati, che culmina nell’omicidio di Aldo Moro e che produrrà lo smarrimento di una generazione, “prima sedotta dalle istanze creative e movimentiste affiorate nelle piazze del 1977, poi abbandonata al crollo delle utopie” (Ecce bombo). Compaiono qui anche i film d’autore che in quegli anni rifletterono lo spaesamento e l’amaro disincanto di vecchi maestri (Il marchese del Grillo, Ginger e Fred, La famiglia). E infine, attraverso l’affollato filone di yuppies e cinepanettoni, il cinema ci aiuta “a decifrare i contorni dell’Italia craxiana, quella che va incontro alla grande slavina di Tangentopoli e della fine della Prima repubblica con una spensieratezza che oggi appare come il frutto di una gigantesca sbornia collettiva”.

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Il “viaggio” proposto da De Luna si chiude con gli eventi del 1992-94, “prodigiosamente anticipati” da Il portaborse, “un frutto fuori stagione”, apparso in un momento in cui la televisione subentrò al cinema come protagonista del progetto di “fare gli italiani”.

Il punto di approdo di questa intrigante ricerca – corredata tra l’altro di foto di scena, di un notevole apparato critico e di una filmografia – è evidente: sin dal suo apparire il cinema si è proposto come uno dei protagonisti della storia del XX secolo, “avendo contribuito in modo decisivo a forgiarne i caratteri più profondi”, non limitandosi a rispecchiare la realtà ma proponendosi di costruirla, modificarla, plasmarla (illuminanti a tal proposito le pagine su La battaglia di Algeri). È un costruttore di identità e di memoria, colleziona tracce dei caratteri originari di un Paese che ci aiutano a conoscerlo storicamente, e in alcuni casi presenta una forma di storiografia in grado di confrontarsi con le tesi interpretative avanzate dagli studiosi, a volte persino di anticiparle.

La conclusione è lasciata al film di Marco Tullio Giordana La meglio gioventù, che affronta molti degli eventi significati del nostro recente passato, in un continuo intreccio tra storia individuale e collettiva, lampante esempio “della capacità del cinema di intercettare lo ‘spirito del tempo’ e di restituirlo alla conoscenza storica”. E così il cerchio si chiude, come l’ultima pagina dell’affascinante avventura conoscitiva rappresentata da questo libro.

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