'La manomissione delle parole': il saggio di Carofiglio sul nesso fra parole, verità e democrazia
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'La manomissione delle parole': il saggio di Carofiglio sul nesso fra parole, verità e democrazia

Tra le altre cose lo scrittore spiega che Il “parlare scorretto”, la progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose, è un fenomeno sempre più diffuso

'La manomissione delle parole': il saggio di Carofiglio sul nesso fra parole, verità e democrazia
Gianrico Carofiglio
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10 Dicembre 2021 - 22.17


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di Antonio Salvati

In un tempo caratterizzato dall’infodemia e in particolar modo dall’aumento dell’analfabetismo funzionale – in età scolare e non –, il recente libro di Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole (Feltrinelli 2021, pp. 160, € 14,25) è un prezioso strumento per comprendere la buona dalla cattiva politica.  Il libro – che in realtà è una riedizione di un saggio scritto una decina d’anni prima – è un chiaro atto politico, una scelta di campo, che passa attraverso una riflessione sul linguaggio e sul nesso fra parole, verità e democrazia. L’autore è sempre affascinato dall’«idea che le parole – cariche di significato e dunque di forza – nascondano in sé un potere diverso e superiore rispetto a quello di comunicare, trasmettere messaggi, raccontare storie. L’idea, cioè, che abbiano il potere di produrre trasformazioni, che possano essere, letteralmente, lo strumento per cambiare il mondo. Spesso, tuttavia, le nostre parole hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli».

Il poeta greco Ghiannis Ritsos ha detto che le parole sono come «vecchie prostitute che tutti usano, spesso male». Serve, dunque, un lavoro da artigiani per restituire verginità, senso, dignità e vita alle parole. È necessario – spiega Carofiglio – smontarle e controllare cosa non funziona, cosa si è rotto, cosa ha trasformato meccanismi delicati e vitali in materiali inerti. E «dopo bisogna montarle di nuovo, per ripensarle, finalmente libere dalle convenzioni verbali e dai non significati». Pertanto, la ragione di questo libro – a un tempo politica, letteraria ed etica – «consiste nell’esigenza di trovare dei modi per dare senso alle parole: e, dunque, per cercare di dare senso alle cose, ai rapporti fra le persone, alla politica intesa come categoria nobile dell’agire collettivo».

In nessun altro sistema di governo le parole sono importanti come in democrazia: la democrazia – ricorda Carofiglio – è discussione, è ragionamento comune, si fonda sulla circolazione delle opinioni e delle convinzioni. E – osserva Gustavo Zagrebelsky – lo strumento privilegiato di questa circolazione sono le parole. E il numero di esse«conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia e dell’uguaglianza delle possibilità. Poche parole e poche idee, poche possibilità e poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica».

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Il rapporto fra ricchezza delle parole e ricchezza di possibilità (e dunque di democrazia) è dimostrato anche dalla ricerca scientifica, medica e criminologica. Infatti, Carofiglio afferma che «i ragazzi più violenti possiedono strumenti linguistici scarsi e inefficaci, sul piano del lessico, della grammatica e della sintassi. Non sono capaci di gestire una conversazione, non riescono a modulare lo stile della comunicazione – il tono, il lessico, l’andamento – in base agli interlocutori e al contesto, non fanno uso dell’ironia e della metafora. Non sanno sentire, non sanno nominare le proprie emozioni. Spesso, non sanno raccontare storie. Mancano della necessaria coerenza logica, non hanno abilità narrativa: una carenza che può produrre conseguenze tragiche nel rapporto con l’autorità, quando è indispensabile raccontare, descrivere, dare conto delle ragioni, della successione, della dinamica di un evento. La povertà della comunicazione, insomma, si traduce in povertà dell’intelligenza, in doloroso soffocamento delle emozioni».

Il “parlare scorretto”, la progressiva perdita di aderenza delle parole ai concetti e alle cose, è un fenomeno sempre più diffuso, in forme ora nascoste e sottili, ora palesi e drammaticamente visibili. Nel suo saggio Carofiglio analizza diverse parole come vergogna, giustizia, ribellione, scelta, bellezza e popolo. Su quest’ultima ci soffermeremo. Il popolo quale entità unitaria esiste solo come indicazione di una universalità che è la base legittimante della democrazia. La parola “popolo” però, nel tempo e soprattutto negli ultimi anni, è stata spesso usata in modo abusivo quando non deliberatamente truffaldino. Quante volte abbiamo ascoltato, soprattutto da eminenti populisti, frasi del tipo «ho rispettato la volontà del popolo sovrano», (Salvini – o chi per lui – lo scrisse in una memoria difensiva legata a un procedimento a suo carico per gravi imputazioni relative al periodo in cui era ministro dell’Interno), oppure «la volontà popolare è sacra e va rispettata». Giuseppe Conte chiedendo la fiducia alla Camera per il primo dei suoi due governi, nel giugno 2018, disse: «se populismo significa restituire al popolo la sovranità, rivendichiamo orgogliosamente di essere populisti».

La Costituzione – come è noto – recita che la sovranità appartiene al popolo, che la esercita – attenzione – nelle forme e nei limiti della Costituzione (art. 1, co. 2). Significa che il voto popolare a suffragio universale è il principio di legittimazione delle istituzioni democratiche, nel quadro delle norme che lo regolano. Ma cosa vuol dire esattamente la parola “popolo”? Esiste – si chiede Carofiglio – il popolo come entità omogenea e, soprattutto, esiste un’entità come la “volontà popolare” che si possa considerare in modo unitario? La risposta è, con immediata evidenza, negativa. Nel migliore dei casi (e peraltro con una chiara semplificazione, considerati i profili di difficoltà insiti nell’individuazione di un volere collettivo) «si può parlare della volontà di una maggioranza di cittadini che abbiano esercitato il diritto di voto. Il concetto di volontà popolare e il suo uso spregiudicato, quando non sgangherato, sono la forma più classica (e per certi aspetti, più subdola) di esercizio del populismo». Un esempio congetturale ci aiuta. Immaginiamo che si tengano delle elezioni politiche e che votino il 60 per cento degli aventi diritto; ipotizziamo che un ipotetico Partito del popolo ottenga il miglior risultato raccogliendo il 40 per cento (percentuale altissima e improbabile) dei voti validi. Tralasciando il sistema elettorale utilizzato e le eventuali questioni relative delle alleanze, il Partito del popolo, legittimo vincitore delle elezioni, avrebbe ottenuto il 24 per cento dei voti del corpo elettorale. Pertanto, avrebbe il diritto-dovere di (provare a) governare. Ma i suoi dirigenti – avverte Carofiglio – non avrebbero titolo a dire cose del tipo “siamo stati votati dal popolo”, “esprimiamo la volontà del popolo”, “siamo qui per volere del popolo” o altre analoghe sciocchezze. Il popolo come unità omogenea è una finzione. Nel saggio intitolato Il fascismo eterno, Umberto Eco scisse: «Dal momento che nessuna quantità di esseri umani può possedere una volontà comune, il leader pretende di essere il loro interprete. Avendo perduto il loro potere di delega, i cittadini non agiscono, sono solo chiamati pars pro toto a giocare il ruolo del popolo. Il popolo è così solo una finzione teatrale». Il popolo è base legittimante dello Stato democratico, nel quale risiede la sovranità. Passare da questa nozione al dire che il popolo, spiega Carofiglio, «è un’entità omogenea e che si può parlare di volontà popolare unitaria è operazione gravemente manipolatoria. È l’enfasi su una (inesistente) volontà comune che permette ai populisti di semplificare, anzi di banalizzare. Se c’è una sola volontà del popolo, allora non ci sono più sfumature, non è più necessario affrontare la complessità. È una visione rassicurante e ansiolitica: c’è una sola risposta giusta ai problemi del nostro tempo, non occorre pensare, non occorre impegnarsi». Una sintesi di tale pericolosa manipolazione venne fornita dall’esperienza politica di Silvio Berlusconi quando nel 2001, durante una nota trasmissione televisiva, firmava un documento denominato “contratto con gli Italiani”. Classica operazione propagandistica che alludeva a un’entità come gli italiani che quasi magicamente diviene unitaria, omogenea, monocratica e munita di una volontà comune. Il populismo si basa su una visione moralistica della politica: l’idea che esista un popolo moralmente puro contrapposto alle élite corrotte (o agli immigrati, descritti come invasori, che del popolo disgregano le tradizioni e la cultura). Per i populisti, l’enorme moltitudine di cittadini che vivono in un certo Paese costituisce un’entità comune, i cui interessi vengono ignorati e calpestati da una minoranza che gestisce ogni cosa con metodi opachi quando non illeciti: i banchieri, le grandi aziende, i politici di professione, gli intellettuali, i professori. Le cose sono leggermente diverse.

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In realtà, una collettività politica si unisce intorno a ciò che ha in comune: storie, valori condivisi, simboli, più o meno inclusivi. Non richiede – sostiene Carofiglio – «uniformità di vedute, ma riconoscimento di ciò che è comune: cioè di quello che la rende comunità. La differenza tra uniforme e comune permette di concepire la democrazia come un’agorà in cui si confrontano punti di vista discordanti e non una sola verità, non un’unica “volontà popolare”. La tolleranza come pratica intellettuale e politica parte dalla consapevolezza che la stessa realtà materiale e sociale viene osservata da diversi punti di vista. Da ciò derivano percezioni, rappresentazioni e sistemi di credenze molto diversi fra loro, ma tutti muniti di elementi di verità di cui occorre tenere conto nella discussione pubblica». Il popolo omogeneo, monocratico e immaginario del discorso populista è la clava di ogni autoritarismo, più o meno palese, più o meno mascherato. È una nozione incompatibile con l’idea di libero dibattito, di dubbio, di discussione, di pluralismo, che è la linfa vitale della democrazia. Compatibile, anzi coerente con l’idea di pluralismo – e molto meno esposto a “manomissione”, della nozione di popolo – è il concetto di comunità. Intorno a esso gravitano parole come solidarietà, uguaglianza, tolleranza. Che ci piacciono di più.

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