Thomas Hardy: la bellezza nella disperazione

L’intera opera dello scrittore si configura come il sommo manifesto romantico della cupezza

Thomas Hardy
Thomas Hardy
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1 Agosto 2021 - 22.33


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di Rock Reynolds

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Cosa può esserci di tanto avventuroso nella storia di un giovane astronomo di belle prospettive che si mette in testa di scoprire qualche ignoto portento nel firmamento, osservandolo col telecopio dalla sommità di un’antica torre nella proprietà di una ricca nobildonna di campagna, lasciata sola da un marito alla ricerca di emozioni forti nell’Africa nera? Se quella donna, affascinata dall’ingenuità e dall’entusiasmo del giovane, cadesse nelle grinfie di un diavolo tentatore e si invaghisse di lui? Se, rosa dai sensi di colpa, ma soccorsa dalla notizia della morte del marito, decidesse di concedersi al giovane per poi tornare sui suoi passi nell’altruista timore di ostacolarne la carriera? E se, per giunta, sulla strada di un amore che desterebbe comunque scandalo si frapponesse un ulteriore ostacolo nella persona del vescovo, a sua volta improbabile aspirante a dare conforto alla vedova?

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Per non togliere al lettore il gusto della scoperta, la lista dei “se” si interrompe qui, ma altri sviluppi sorprendenti tengono alto il livello della suspense in Due sulla torre (Fazi Editore, traduzione di Chiara Vatteroni, pagg 359, euro 17), romanzo cosiddetto minore di Thomas Hardy, autentico maestro della letteratura romantica inglese.

Scritto nel 1882 – ovvero 8 anni dopo il primo grande capolavoro, Via dalla pazza folla, e 9 anni prima del secondo grande romanzo, Tess dei d’UrbervilleDue sulla torre è “minore” solo per via della portata storica di quei due libri e di Jude l’oscuro, le tre opere che hanno consegnato Hardy all’olimpo della letteratura internazionale.

Animato dalla consueta forza di personaggi sorpresi nel costante dilemma etico nel quale l’autore pare divertirsi a catapultarli, descrivendo così la fragilità dell’uomo comune senza mai cadere nella rappresentazione caricaturale, Due sulla torre è certamente figlio del suo tempo, senza risultare quasi mai datato. Personaggi credibili, dunque, ma soprattutto trame sempre sorprendenti. Il tutto condito da quell’eleganza formale che solo un autore che si considerava poeta per vocazione e prosatore per necessità avrebbe potuto mettere in campo. Un esempio? L’impressione che Lady Constantine ha del suo giovane spasimante. “…quel ragazzo di stupefacente bellezza… aveva fatto studi scientifici e aveva modi raffinati… La situazione acquisiva ulteriore fascino dal fatto che quello stesso giovane così vulnerabile all’adulazione, alle blandizie, al piacere e perfino alla grossolana prosperità, al momento dovesse vivere in un Eden primitivo e incosciente e avere degli per raggiungere i quali erano inutili tanto un aspetto mostruoso quanto la sua bellezza.”

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L’intera opera di Thomas Hardy si configura come il sommo manifesto romantico della cupezza, al punto che diversi autori inglesi faticano tuttora a relazionarsi con le pagine del grande maestro, dominate da una disperazione nera da cui solo di quando in quando filtra un raggio di sole e quasi mai nei romanzi più maturi. Anne Perry, per esempio, che ambienta buona parte delle sue storie in quella stessa Inghilterra vittoriana, storie non necessariamente tra le più allegre in quanto dominate dall’alternanza costante tra bene e male, tra delitto e castigo, mi ha confessato di non riuscire a leggere Thomas Hardy perché, appunto, eccessivamente disperante. “Le ultime cose di Hardy le ho lette ai tempi delle scuole, perché costretta a farlo”, mi ha detto. “Oggi non riesco proprio ad accostarmici.”

Pensavo di fare decisamente meno fatica a trovare tra i miei amici scrittori inglesi qualcuno pronto a parlare con entusiasmo della sua prosa. La disperazione cupa di romanzi come Tess dei d’Urberville e, ancor più, Jude l’Oscuro spaventa. Eppure la loro profondità emotiva e la loro eleganza formale dovrebbero essere uno straordinario stimolo a superare lo scoglio di trame angosciose e personaggi mai del tutto felici.

Forse perché a sua volta appassionato di tonalità scure e atmosfere fosche, Glen Duncan non si sottrae alla mia richiesta di valutare la figura di Thomas Hardy. Conoscendo lo spirito sepolcrale ma pure iconoclasta di alcuni romanzi di questo scrittore angloindiano – per esempio 666 Io sono il diavolo (Newton Compton), L’ultimo lupo mannaro  e L’alba di Talulla (entrambi usciti in Italia per ISBN), ma pure La lezione (Mondadori), scritta sotto lo pseudonimo di Saul Black – sapevo che lo avrebbe fatto. “Hardy è il primo autore vittoriano che io abbia letto da adolescente e resta quello più cupamente evocativo. I suoi romanzi hanno un’impellenza immediata, organica, mitica, descrivendo un mondo in cui piatti forti romantici come ‘fato’ e ‘destino’ emergono paradossalmente da un tessuto di inflessibile realismo socioeconomico. Tra i suoi contemporanei, solo George Eliot (al secolo Mary Ann Evans Cross, autrice de Il mulino sulla Floss) era sul suo stesso piano per l’autenticità e la vivacità di personaggi di grande complessità morale, sessuale e spirituale. Parlarne mi ha proprio fatto venire voglia di rimettermi a leggere l’opera di Hardy, cosa che probabilmente non faccio da una trentina d’anni o forse più. Ma il tempo dov’è? Siamo già a metà aprile e ho tuttora un piccolo Babbo Natale, alquanto triste in verità, appeso alla mia libreria, dato che il fottuto Natale sembra passato solo da un giorno!”

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Come detto, a Glen Duncan piacciono situazioni forti e atmosfere non esattamente solari, ma niente paura: anche Thomas Hardy, di quando in quando, trova modo di stupirci con qualche passo di sfumata, leggera ironia. Per esempio, in Due sulla torre, ecco come racconta la caducità dell’amore di fronte all’incedere del tempo. “…il giovanotto si sarebbe comprato un capestro piuttosto che tornare a guardare la luna dalla Guglia di Rings-Hill, dopo aver visto le meraviglie degli altri paesi e l’oro e i gioielli che vi si trovavano; altrimenti, forse, la sua infelicità sarebbe stata ancora più grande.”

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