Quando e perché Mussolini abolì la Festa del 1° maggio
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Quando e perché Mussolini abolì la Festa del 1° maggio

La scellerata decisione di Mussolini era la logica conseguenza della lotta fascista contro le corporazioni dei lavoratori e dei loro sacrosanti diritti

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Giuseppe Costigliola Modifica articolo

30 Aprile 2021 - 20.35


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La Festa del Lavoro, intesa come momento di lotta internazionale di tutti i lavoratori, senza barriere geografiche né sociali, per affermare i propri diritti e migliorare la propria condizione, ha origine lontane. Dopo migliaia di anni di osceno sfruttamento, con turni di lavoro che arrivavano alle sedici ore al giorno (uomini, donne, persino bambini), a metà dell’Ottocento cominciò a svilupparsi una coscienza civile ed umana, onda lunga della rivoluzione illuminista del secolo precedente. Nella lontana Australia, luogo d’emigrazione e di lavoro, nel 1855 si coniò una parola d’ordine su cui si fonderanno le politiche dei movimenti sindacali organizzati di fine secolo e del Novecento: “Otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”. Era un concetto rivoluzionario, che andava al di là della dimensione lavorativa, e che mirava ad allargare la sfera dei diritti di ogni cittadino.
La proposta concreta che scaturì dal congresso dell’Associazione internazionale dei lavoratori – la Prima Internazionale – riunita a Ginevra nel settembre 1866, si rifece direttamente al grido che giungeva da quel continente lontano: “Otto ore come limite legale dell’attività lavorativa”. E, a testimonianza dell’internazionalità della lotta, la questione del limite orario divenne il cavallo di battaglia dei movimenti sindacali statunitensi: fu in quel Paese, capitalista per eccellenza e già notevolmente industrializzato, che si combatterono nell’Ottocento le battaglie più cruente e sanguinose.
Nell’ottobre del 1884 le organizzazioni sindacali indicarono nel 1° Maggio 1886 la data limite, a partire dalla quale gli operai americani si sarebbero rifiutati di lavorare più di otto ore al giorno. Fu indetto uno sciopero generale a cui parteciparono quattrocentomila lavoratori; a Chicago ne sfilarono ottantamila, e la manifestazione venne repressa nel sangue. Ad essa seguirono giorni di violenti scontri in tutte le grandi metropoli americane, culminati il 4 maggio col massacro di Haymarket, dove 11 persone persero la vita. Ma la lotta contro il capitalismo selvaggio e senza regole continuava.
Adesso toccava all’Europa. Il 20 luglio 1889 a Parigi si tenne il congresso della Seconda Internazionale, che decise di organizzare una grande manifestazione in una data stabilita. La scelta cadde sul 1° maggio, per commemorare la carneficina di Haymarket: il ricordo dei “martiri di Chicago” divenne simbolo di lotta dei lavoratori di tutto il mondo.
Anche in Italia le organizzazioni sindacali intensificarono l’opera di sensibilizzazione sul significato del 1° maggio, mentre i governi, più o meno liberali o autoritari, misero a punto gli apparati repressivi. Malgrado la mancanza di un centro organizzativo, la riuscita delle manifestazioni del 1° maggio 1890 costituì un salto di qualità del movimento dei lavoratori, che per la prima volta diede vita ad una mobilitazione su scala nazionale, collegata all’iniziativa di carattere internazionale.
Visto il successo di quella che nelle intenzioni doveva essere una rappresentazione unica, si decise di replicarla l’anno successivo, ed essa divenne una tradizione consolidata, un appuntamento al quale il movimento dei lavoratori si preparava con sempre maggiore consapevolezza. Aumentavano gli obiettivi, altre rivendicazioni politiche e sociali s’imponevano.
Il 1° maggio 1898 coincise con la fase più acuta dei “moti per il pane”, con il tragico epilogo di Milano, nei giorni dal 6 al 9 maggio, quando l’esercito di Bava Beccaris cannoneggiò la popolazione inerme, lasciando sul selciato 81 morti e 450 feriti.
Nei primi anni del Novecento la festa si caratterizzò anche per la rivendicazione del suffragio universale, poi per la protesta contro l’impresa libica, quindi contro la partecipazione dell’Italia alla guerra mondiale. Internazionalismo, pacifismo e diritti dei lavoratori si saldavano sempre più.
Finalmente, il 1° maggio 1919 i metallurgici e altre categorie di lavoratori poterono festeggiare il conseguimento dell’obiettivo originario della ricorrenza: le otto ore di lavoro. Ma un formidabile nemico del popolo e dei lavoratori tesseva la sua tela omicida.
Nell’ottobre del 1922 Benito Mussolini diventò Presidente del Consiglio, e uno dei primi atti del suo governo cancellò con un colpo di spugna il 1° maggio e il suo significato, maturato in anni di sanguinosissime conquiste dei lavoratori: il 19 aprile del 1923, con un decreto-legge da lui proposto ed approvato dal Consiglio dei ministri, la festività venne abolita ed accorpata alla festa ufficiale del fascismo, che coincideva con il “Natale di Roma”, il 21 aprile, dallo stesso tiranno proclamata. Soltanto l’anno prima, il presidente del Consiglio Facta aveva riconosciuto il 1° maggio come giornata festiva.
La scellerata decisione di Mussolini era la logica conseguenza della lotta fascista contro le corporazioni dei lavoratori e dei loro sacrosanti diritti, che già prima della presa del potere si era concretizzata durante il cosiddetto biennio rosso, quando le squadracce in camicia nera si macchiarono di violenze inaudite contro le organizzazioni operaie socialiste e comuniste, con vergognose caccie all’uomo, omicidi e distruzioni, violenze tollerate e persino sostenute dagli organi dello stato liberale: una macchia indelebile nella storia di questo Paese.
All’atto formale il tiranno fece seguire atti sostanziali, con operazioni a tenaglia: la milizia fascista venne sguinzagliata per intimidire e aggredire operai e contadini, soffocare ogni manifestazione di protesta nelle fabbriche e nei campi, mentre le autorità di pubblica sicurezza si occuparono di stroncare ogni movimento teso a difendere i diritti dei lavoratori e a prevenire azioni collettive e individuali operanti in tal senso: retate, arresti preventivi, sequestri di materiale e chiusura di fogli e giornali divennero la tetra normalità. Festeggiare il 1° maggio divenne un reato duramente punito.
Ma il pugno di ferro del regime non conosceva limiti: nel biennio 1925-26 furono proclamate le cosiddette “leggi fascistissime”, che dichiararono fuorilegge le associazioni sindacali non irreggimentate, vietarono il diritto di sciopero e la serrata. L’anno seguente entrò in opera il famigerato Tribunale Speciale dello Stato, che comminò migliaia di pesantissime condanne: nel solo 1928, per aver celebrato il 1° maggio, sette operai di Trieste, cinque di Verona, tre di Torino e uno di Milano vennero condannati ad oltre 102 anni di carcere. Di fronte a tale spietata durezza, persino il ricordo del 1° maggio del 1921, definito dall’Avanti! “il più tragico, il più tempestoso, il più significativo tra quanti ne ha solennizzati la classe lavoratrice d’Italia”, impallidiva.
La volontà del regime di estirpare alla radice il significato più autentico del 1° maggio fu così tenace da sfociare nella psicosi e nella pura idiozia: negli anni Trenta in Romagna gli squadristi irrompevano nelle case in cerca di tortelli, serviti nei giorni di festa.
Bisognerà aspettare il crollo del regime e il 1945 perché gli effetti del decreto del 1923 cadessero, e quella ricorrenza tornasse a rappresentare la data simbolo della Festa del Lavoro, liberamente celebrata da milioni di lavoratori.
In occasione di questa gloriosa ricorrenza, non sarà quindi inutile ricordare che quella di un Mussolini schierato a fianco del popolo e dei lavoratori è una delle maggiori balle che ancora circolano su quel triste figuro.

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