Le stragi della Grande Guerra e l'ottusa arroganza dei generali italiani
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Le stragi della Grande Guerra e l'ottusa arroganza dei generali italiani

Un brano dal libro Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu, che fu ufficiale di fanteria della brigata Sassari. Un racconto di sofferenze, di disumanità e di ragazzi mandati al massacro nell'indifferenza degli alti comandi

Prima guerra Mondiale
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31 Ottobre 2018 - 21.05


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Un brano tratto da Un anno sull’Altipiano, di Emilio Lussu. Parla della visita di un generale italiano sulla prima linea e della stupida arroganza con la quale gli alti ufficiali mandavano a morire poveri ragazzi solo per soddisfare i loro capricci

 

Noi avevamo costruito una trincea solida, con sassi e grandi zolle. I soldati la potevano percorrere, in piedi, senza esser visti. Le vedette osservavano e sparavano dalle feritoie, al coperto. Il generale guardò alle feritoie, ma non fu soddisfatto. Fece raccogliere un mucchio di sassi ai piedi del parapetto, e vi montò sopra, il binoccolo agli occhi. Così dritto, egli restava scoperto dal petto alla testa. – Signor generale, – dissi io, – gli austriaci hanno degli ottimi tiratori ed è pericoloso scoprirsi così. Il generale non mi rispose. Dritto, continuava a guardare con il binoccolo. Dalle linee nemiche partirono due colpi di fucile. Le pallottole fischiarono attorno al generale. Egli rimase impassibile. Due altri colpi seguirono ai primi, e una palla sfiorò la trincea. Solo allora, composto e lento, egli discese. Io lo guardavo da vicino. Egli dimostrava un’indifferenza arrogante. Solo i suoi occhi giravano vertiginosamente. Sembravano le ruote di un’automobile in corsa. La vedetta, che era di servizio a qualche passo da lui, continuava a guardare alla feritoia, e non si occupava del generale.
Ma dei soldati e un caporale della 12ª compagnia che era in linea, attratti dall’eccezionale spettacolo, s’erano fermati in crocchio, nella trincea, a fianco del generale, e guardavano, più diffidenti che ammirati. Essi certamente trovavano in quell’atteggiamento troppo intrepido del comandante di divisione, ragioni sufficienti per considerare, con una certa quale apprensione , la loro stessa sorte.
Il generale contemplò i suoi spettatori con soddisfazione. – Se non hai paura, – disse rivolto al caporale, – fa’ quello che ha fatto il tuo generale. – Signor sì, – rispose il caporale. E, appoggiato il fucile alla trincea, montò sul mucchio di sassi. Istintivamente, io presi il caporale per il braccio e l’obbligai a ridiscendere. – Gli austriaci, ora, sono avvertiti, – dissi io, – e non sbaglieranno certo il tiro. Il generale, con uno sguardo terribile, mi ricordò la distanza gerarchica che mi separava da lui.
Io abbandonai il braccio del caporale e non dissi più una parola. – Ma non è niente, – disse il caporale, e risalì sul mucchio. Si era appena affacciato che fu accolto da una salva di fucileria . Gli austriaci, richiamati dalla precedente apparizione, attendevano coi fucili puntati. Il caporale rimase incolume. Impassibile, le braccia appoggiate sul parapetto, il petto scoperto, continuava a guardare di fronte. – Bravo! – gridò il generale. – Ora, puoi scendere. Dalla trincea nemica partì un colpo isolato. Il caporale si rovesciò indietro e cadde su di noi. Io mi curvai su di lui. La palla lo aveva colpito alla sommità del petto, sotto la clavicola, traversandolo da parte a parte.
Il sangue gli usciva dalla bocca. Gli occhi socchiusi, il respiro affannoso, mormorava: – Non è niente, signor tenente. Anche il generale si curvò. I soldati lo guardavano, con odio. – È un eroe, – commentò il generale. – Un vero eroe. Quando egli si drizzò, i suoi occhi, nuovamente, si incontrarono con i miei. Fu un attimo. In quell’istante, mi ricordai d’aver visto quegli stessi occhi, freddi e roteanti, al manicomio della mia città, durante una visita che ci aveva fatto fare il nostro professore di medicina legale. – È un eroe autentico, – continuò il generale. Egli cercò il borsellino e ne trasse una lira d’argento. – Tieni, – disse, – ti berrai un bicchiere di vino, alla prima occasione. Il ferito, con la testa, fece un gesto di rifiuto e nascose le mani. Il generale rimase con la lira fra le dita, e, dopo un’esitazione, la lasciò cadere sul caporale. Nessuno di noi la raccolse

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