di Pancrazio Anfuso
Sono uno scrittore ossessionato dal ricordare, dal ricordare il passato dell’America e soprattutto dell’America Latina, terra condannata all’amnesia.Eduardo Galeano, 74 anni, è morto ieri a Montevideo, la città dov’era nato, per un tumore ai polmoni contro il quale lottava da tempo. E’ stato uno scrittore importante, perseguitato per le sue idee prima dalla dittatura uruguayana e poi da quella argentina. Ha scritto libri che raccontano la storia dell’America Latina, quella del calcio e quella dell’intero continente americano, raggiungendo la fama con Le vene aperte dell’America Latina (1971), che racconta cinque secoli di sfruttamento del continente da parte dei suoi oppressori stranieri. Una scrittura che univa la freschezza del giornalista alla poesia sudamericana e diventava politica parlando della vita.
Spesso mi invitano ad assistere al funerale del capitalismo. Sappiamo bene, però, che questo sistema che privatizza i profitti e socializza le perdite e, come se non fosse abbastanza, cerca di convincerci che si tratta di filantropia, vivrà ancora più di sette vite.
Galeano ha sempre rifiutato di considerarsi un intellettuale, benché lo fosse: scriveva di economia, di storia, di politica ed era attento ai mutamenti della società e a temi come quelli della globalizzazione e della diversità.
La diversità passa per la diversità dei punti di vista possibili: dal punto di vista del sud l’estate del nord è inverno e dal punto di vista di un verme un piatto di spaghetti è un’orgia; dove gli indù vedono una vacca sacra altri vedono un grande hamburger. Dal punto di vista di Ippocrate, Galeno, Maimonide e Paracelso esisteva una malattia chiamata indigestione, ma non esisteva una malattia chiamata fame. Dal punto di vista del gufo, del pipistrello, del bohémien e del ladro il crepuscolo è l’ora della colazione. La pioggia è una maledizione per il turista e una benedizione per il contadino. Dal punto di vista dell’autoctono è il turista a essere pittoresco. Dal punto di vista degli indios delle isole caraibiche Cristoforo Colombo, con il suo copricapo di piume e il suo mantello di velluto rosso, era un pappagallo di dimensioni mai viste…
Sul suo modo di scrivere e di osservare il mondo ha detto:
Fortunatamente sono un ficcanaso, curioso di natura, e vado continuamente cercando la terza riva del fiume, quel posto misterioso dove humour e horror si incontrano.
Scrivo volendo parlare ed esprimermi in un linguaggio sentipensante, una precisa definizione che mi ha insegnato un pescatore della costa colombiana del mar dei Caraibi. Per questa ragione non mi piace essere definito come un intellettuale. Mi sembrerebbe di essere trasformato in una testa senza corpo, una situazione scomoda, in cui la ragione e il sentimento sarebbero separati l’uno dall’altra. Uno suppone che un intellettuale sia qualcuno capace di conoscere, ma io preferisco qualcuno capace di comprendere. Una persona colta non è qualcuno che ha accumulato tanta conoscenza, perché altrimenti nessuno sarebbe più colto di un computer. Una persona colta è qualcuno che sa come ascoltare, come ascoltare gli altri e le mille e una voce della natura di cui facciamo parte. Invece di parlare, io ascolto.
Nel libro Splendori e miserie del gioco del calcio (El fútbol a sol y sombra) raccontava gustose storie del football sudamericano e mondiale. Una passione che lo accomunava a Osvaldo Soriano, grande scrittore argentino mancato anni fa. Da qualche parte, ora, si sta organizzando un’amichevole di benvenuto per il cantore di un calcio che non c’è più. In campo, la Màquina, Friedenreich, Garrincha e Obdulio Varela.
“I libri mi scrivono, crescono dentro di me, e ogni notte cado addormentato ringraziandoli, perché mi lasciano credere di essere io l’autore”.