Treno delle memoria: il primo giorno
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Treno delle memoria: il primo giorno

Il diario di viaggio del treno della memoria partito da Firenze che ha raggiunto il campo di concentramento di Auschwitz.

Treno delle memoria: il primo giorno
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21 Gennaio 2015 - 12.42


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di Chiara D’Ambros

Lunedì 19. Partenza dal stazione di Firenze SMN, il binario è gremito di studenti e insegnanti, valigie, berretti, sorrisi. Siamo al Binario 16. All’inizio del binario c’è un monumento e una targa in ricordo dove sono incise queste parole: “Da questo binario partirono, nei vagoni piombati, centinaia di uomini e donne, anziani e bambini ebrei verso le camere a gas e i forni crematori di Aushwitz. Un monumento non ci restituirà le loro vite innocenti ma ci permetterà almeno di non dimenticare, nella speranza che tutto ciò non si verifichi mai più”. 9 novembre 1943/9 novembre 2013.

Partiamo per ricordare. I vagoni oggi non sono pieni di paura, terrore, dolore e sgomento come saranno stati i treni piombati che 70 anni fa partivano da qui per viaggio di sola andata per migliaia e migliaia di persone, che avevano l’unica colpa di essere ebree, omosessuali, rom o di avere idee politiche differenti da quelle vigenti. Questo treno destinazione Cracovia è pieno di ragazzi, di voglia di conoscere, di partecipare tutti assieme a un’esperienza indimenticabile tra gli orrori del ‘900; è un treno pieno di testimonianze e di stimoli alla riflessione condivisa, grazie agli incontri organizzati nel vagone ristorante dove gruppi di 50 studenti per volta, si succedono e incontrano alcuni rappresentanti della comunità ebraica prima, poi dell’Associazione Gay e Lesbiche di Toscana, e dopo ancora della comunità di Rom e Sinti e infine gli internati militari e politici, l’Anpi.

Ricordare perché non si ripeta mai più l’orrore. Tanti i pensieri, gli elementi di discussione che emergono, mentre il paesaggio del nostro paese scorre dal finestrino. Si puntualizza che la memoria non deve servire per celebrare le vittime ma per comprendere i carnefici, perché non si ripeta mai più. Una rappresentante della comunità ebraica lancia una provocazione dicendo: “Ci si chiede dov’era Dio a Auschwitz, ma forse ci si dovrebbe chiedere dov’era l’uomo ad Auschwitz”. Si parla degli omosessuali e dei Rom e balza chiaro come uno dei motori fondamentali di ogni persecuzione è la paura del diverso che è tanto più grande tanto più l’altro è e rimane a noi sconosciuto… qualche eco con discussioni del presente?… di sicuro [url”la riunione omofoba a Milano”]http://www.globalist.es/Detail_News_Display?ID=68097&typeb=0&Convegno-omofobo-La-Russa-urla-allo-studente-culattone[/url] proprio di questi giorni risponde da sé, assieme a tutto il resto… Nell’ultimo incontro con i rappresentati dei deportati militari e politici si sottolinea quanto poca rilevanza e spazio di analisi e confronto sia stato dato al fenomeno del collaborazionismo in Italia. I convogli che partivano dal Binario 16 erano pieni di persone che gente comune o fascisti che avevano denunciato, fatto arrestare, consegnato ai Nazisti. Allo stesso modo si sottolinea quanto poco spazio è stato dato agli internati militari, così denominati (e non prigionieri politici) perché questo permetteva agli aguzzini di non dover riconoscere loro nessuno dei diritti sanciti ai prigionieri di guerra dal tribunale internazionale, come ricevere pacchi dai cari, poter comunicare con il mondo esterno. I deportati militari furono oltre 650.000, era stato offerto loro di tornare al fronte al fianco dei Nazisti ma quasi tutti si rifiutarono, scelsero di restare per vari motivi di restare nel campo, piuttosto che andare in prima linea a fianco dei nazisti, non per tutti era resistenza ideologica ma così è stato, mentre il nostro Paese era alle prese con una guerra civile. Il figlio di un reduce, liberato dai Russi e tornato a casa solo nell’ottobre ’45, racconta che il padre dovette aspettare fino all’aprile del ’46 per essere congedato e solo un documento in data 3.8.1953 gli riconosceva come anni validi per la pensione il periodo di internamento dal 9.9.’43 al 7.10.45.

Chi scrive in treno, passato il Brennero c’era la neve, siamo al caldo, ben nutriti, entusiasti di vivere questa esperienza e di poterla condividere. Arriva nello scompartimento un rufolo di gelo, e sta per iniziare la notte, il rumore del treno che ora rimane l’unico suono ad accompagnare i pensieri di questo viaggio, lascia spazio all’immagine dei vagoni piombati stracolmi di persone impaurite, assetate, gelate… non si può non pensare che 70 anni fa centinaia di persone stavano percorrendo questi stessi binari verso una destinazione senza ritorno, per molti sono state le ultime ore di vita, per molti l’anticamera dell’incontro con l’orrore e una sofferenza disumana nello spirito e nel corpo.

Domani mattina arrivamo a Auschwitz, Ugo Caffaz ideatore del primo treno della Memoria proprio con la Regione Toscana nel 2000, oggi pomeriggio ha detto che: “Si arriva in un mondo fuori dal mondo”.
Il treno procede e così più avanti il racconto…


Martedì 20.Arriviamo a Oswiecim, la cittadina limitrofa al campo con dei pullman ci rechiamo a Birkenau sotto un cielo grigio. La storica entrata è coperta da un tendone che il 27 gennaio per la commemorazione dei 70 anni ospiterà capi di stato e sopravvissuti, le sorelle Bucci ex deportate bambine, che hanno vissuto qui 10 mesi, una aveva 4 anni, l’altra6 e che sono con noi oggi, ci dicono che non verranno perché per il 60esimo hanno parlato solo i politici.

La visita. Veniamo divisi in gruppi, ciascun gruppo una guida, la vastità dal campo obbliga a scegliere dei siti da visitare. Vediamo le baracche dei bambini dove alcuni adulti hanno dipinto due muri con immagini fiabesche che creano un cortocircuito nell’immaginazione se si guardano vedendo i giacigli in pietra dove questi bambini dormivano.

Il racconto dei sopravvissuti. Le sorelle Bucci raccontano del freddo patito e della inconsapevolezza drammatica di essere bambini in un Lager, loro erano in una baracca speciale destinata ai bambini soggetti agli esperimenti di Mendelev perché erano state scambiate per gemelle, della loro baracca rimangono solo le fondamenta ma per loro, in loro è ancora tutta intera con dentro tutta la sofferenza che hanno provato tra la fame, private del gioco… dell’infanzia.

I forni crematori.Ci avviamo verso i siti dove c’erano i crematori, oggi restano solo macerie perché i tedeschi li hanno fatti saltare prima di lasciare il campo nel gennaio del ’45. Elana Bucci ha con sé un sacchetto di pietre portate dall’Italia e ne ripone una accanto alla corona posta in un angolo delle macerie di un luogo che ha visto radunare, gasare e bruciare sino a 1400 “pezzi” – come venivano chiamati gli esseri uomini dai nazisti – al giorno.

Ci spostiamo nell’area “Canada” luogo dove venivano portati quelli che avevano passato la prima selezione dopo l’arrivo. Entravano coi loro vestiti e beni e uscivano senza più nulla, se non una veste a righe, e un numero tatuato sul braccio.

Da li ci rechiamo agli altri crematori di cui rimane pochissimo, sono vicini al bosco di betulle, la dolcezza di questi alberi, la tranquillità della natura stride con i racconti e le foto poste nei siti dove le persone, non più tali, venivano annientate. Camilla Brunelli direttrice del museo Nazionale della deportazione di Prato, proprio ieri in treno durante il viaggio ci raccontava come ogni volta che torna a Birkenau non riesce ad evitare di pensare che quegli alberi hanno visto, sono i veri testimoni silenti della tragedia che si è consumata in questo luogo.

Dopo la visita: solo silenzio e riflessione. La visita è finita, ci raduniamo e tutti in silenzio, 700 persone di cui 600 ragazzi si avviano verso il monumento commemorativa alle vittime che sorge accanto a uno dei crematori, e apporta una targa in ciascuna delle lingue parlate dalle vittime che sono entrate e mai più uscite da lì: “Grido di disperazione e ammonimento per sempre all’umanità sia per sempre questo luogo dove i Nazisti uccisero circa 1 milione e mezzo di uomini, donne e bambini principalmente ebrei da vari paesi d’Europa”. Proprio davanti a queste targhe la lunga fila di ragazzi si è divisa in due file e ciascuno di loro ha pronunciato il nome di un bambino o ragazzo deportato, di età compresa tra i 3 mesi e i 35 anni. Un piccolo discorso di Ugo Caffaz sull’importanza di guardare con attenzione e in modo critico ogni discriminazione perché possono essere il seme di immani tragedie allora come ora. Un canto in ebraico cantato dal musicista Enrico Finz e usciamo dal campo, lasciamo fisicamente un luogo che come ha detto un ragazzo “in realtà non lasceremo mai più”.

Il pomeriggio ancora incontri e riflessioni. Marino Sinibaldi, direttore di Rai Radio3, che in questi giorni sta seguendo il treno della memoria con dirette quotidiane alle 1625 per i pomeriggi di fahrenheit e alle 20.05 a Radio3Suite (con l’eccezione di oggi 21 gennaio in cui il collegamento sarà alle 2245), Ha incontrato Vera Vigevani Jarach, ebrea esule sin da bambina in Argentina, scappata a seguito dell’introduzione in Italia delle leggi razziali, che ha poi conosciuto il regime sudamericano perdendo la figlia, attivista politica che a 18 è scomparsa. Si scoprirà solo dopo 20 dove era finita un’intera generazione di giovani, oppositori al regime di Videla, 30.000 desaperecids, molti dei quali gettati in mare dai “voli della morte” come sono stati chiamati poi”. Vera dice di non poter più essere madre, non avendo più una figlia ma è madre di Plaza de Majo, un’esperienza esemplare di lotta per la verità, perché il silenzio, anche sulle piccole cose, è la morte della democrazia dice davanti a centinaia di ragazzi, con un sorriso e una forza disarmanti e al contempo contagiosi. Con il fazzoletto in testa simbolo delle Madri di Plaza de Majo dice che si devono osservare, mettere in luce i sintomi di potenziali tragedie, genocidi, e lo si può fare solo partecipando, parlando, attraverso la democrazia che non sarà uno strumento perfetto ma rimane il migliore, certo da perfezionare di molto ma dà pur sempre la possibilità di portare dei cambiamenti, far vivere i sogni attraverso, lo ripete, la partecipazione.

È stata una lunga giornata. Domani ci aspetta Auschwitz 1, e il museo.
Buonanotte.

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