Cardini: la guerra, la pace e i poteri anonimi
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Cardini: la guerra, la pace e i poteri anonimi

Alla scoperta del libro di Franco Cardini, "Quell'antica festa crudele", recentemente riedito per i tipi de Il Mulino. Con un'intervista all'autore. [Alberto Melotto]

Cardini: la guerra, la pace e i poteri anonimi
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5 Febbraio 2014 - 10.24


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di Alberto Melotto

Il volume del professor Franco Cardini, Quell’antica festa crudele, compie un viaggio lungo i secoli che vanno dal medioevo alla Rivoluzione Francese. Dall’età comunemente definita oscura all’età dei Lumi, dunque. Questo cammino, ricco di citazioni letterarie e filosofiche, è in realtà un ragionare su un’altra coppia di opposti, guerra e pace.

La guerra che crea nuove classi sociali, sollecita spostamenti di popolazioni affamate in cerca di ingaggi mercenari, terrorizza plebi contadine, mette a dura prova il talento di comandanti alla vigilia della battaglia, esalta l’ingegno di artigiani e inventori, pronti a fornire nuovi strumenti di offesa e di vittoria.

Ed anche, in specie dopo l’anno mille, la pace che diffonde il proprio messaggio esigente e chiede risposte adeguate, col formarsi di movimenti che pongono seri limiti alle guerre private.

Entrambi i fenomeni sono visti nella loro quotidianità, legata all’evolversi del pensare e dell’agire umano. Una quotidianità forse non grigia e malinconica come ne Il mestiere delle armi di Ermanno Olmi, ma capace anche di slanci entusiastici, di passioni frementi.

Compaiono pensatori più che noti come il Machiavelli del Principe e dell’Arte della guerra, ed altri meritevoli di una maggior fama. È il caso, ci dice Cardini, di Raimondo Montecuccoli, “generalissimo dell’armata imperiale, vincitore dei turchi sulla Raab nel 1664”, che fu uomo d’arme ed anche valente scrittore. Di questo figlio del suo tempo, l’autore apprezza il piglio anti-retorico, l’affidarsi al valore dell’esperienza maturata sul campo, e anche il gusto per la precisione e la perizia nell’arte del combattimento.

Non si creda che si tratti di un’agiografia del fenomeno bellico. A parer nostro, si vuole mettere l’accento su una civiltà che possedeva una forte consapevolezza di quel che significasse l’andare in battaglia, che trovava in sé gli anticorpi che potessero salvarla da un definitivo tracollo, da un totale cedimento alla barbarie del sangue versato. Consapevolezza che secondo Cardini, risulta assente ingiustificata ai nostri giorni. Quell’antica festa crudele, infatti, viene edito nuovamente dopo la prima pubblicazione, nei primi anni ottanta.

Riproporre il testo a distanza di un certo tempo, è utile per marcare la distanza che separa un periodo di impegno e di scontro culturale e politico, dai nostri anni inconsapevoli.

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Se nei secoli passati la guerra poteva essere “umanizzata”, “razionalizzata” e quindi dominata, oggi la mancanza di una morale condivisa nell’opinione pubblica, pare far da preludio al trionfo delle guerre non più legate ai voleri degli stati-nazione.

Queste suggestioni ci hanno fornito gli spunti per una serie di domande da rivolgere al professor Cardini.


“Più il soldato era estraneo e magari perfino ostile rispetto all’ambiente nel quale espletava il suo servizio, più la sua fedeltà si indirizzava esclusivamente ai suoi superiori e meglio lo si poteva usare come strumento di repressione”. Questo suo discorso sulla coscrizione obbligatoria dei secoli passati, non può non far pensare alla recente creazione del corpo di polizia definito [i]Eurogendfor[/i]. Questa euro-milizia, che andrà ad incorporare in futuro la stessa Arma dei carabinieri, dovrà gestire crisi legate all’ordine pubblico. Si parla di un’immunità giudiziaria per gli appartenenti a questo corpo speciale di polizia, gli ufficiali di Eurogendfor non potranno essere intercettati dalle autorità giudiziarie dei singoli stati. È facile supporre che un simile marchingegno verrà impiegato in situazioni dove si verifica una forte protesta sociale contro decisioni inique dei governi, vedasi per quanto concerne l’italia la val di Susa, che peraltro è già ampiamente occupata militarmente, o la Sicilia ferita dal Muos. Che cosa pensa di questo ennesimo esempio di perdita della sovranità nazionale?

La sovranità nazionale l’Italia non ce l’ha più da quando il sistema USA/NATO è entrato potentemente nella penisola innervandola con le sue basi militari senza che i nostri governi abbiano mosso un dito, anzi sulla base di un’evidente loro connivenza. Se si trattasse di un passo verso la preparazione di un’autentica unità europea, anche dal punto di vista politico, allora è ovvio che i singoli stati dovrebbero cedere porzioni della loro sovranità nazionale al governo centrale, federale o confederale che fosse: ma per questo ci vorrebbe una costituzione europea e una raggiunta maturità di coscienza appunto federale o confederale da parte dei popoli, che non c’è. Siamo all’anno zero; e, poiché siamo governati da anonimi poteri, è ovvio che il corpo di polizia sovranazionale serva ai loro interessi. Dovremmo cominciare con il far chiarezza. Chi lo ha voluto? Quali sono i suoi poteri? Chi li ha determinati? Una decisione di questo tipo non può esser presa nel totale silenzio dei governati.

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È l’inizio di un percorso di recrudescenza, un fronte di guerra interno?

È la prosecuzione della costruzione di Eurolandia a favore di chi la gestisce e ne ricava i frutti.

A suo avviso non sarebbe preferibile ritornare ad un esercito composto attraverso il ricorso alla leva obbligatoria, un esercito che nasca per scopi esclusivamente difensivi e di aiuto alla popolazione civile? La fine della leva obbligatoria operata alcuni anni or sono, non ha forse permesso un più facile ricorso alle azioni di guerra, mascherate da operazioni umanitarie?

Un esercito che nasca con i soli scopi difensivi e di aiuto alla popolazione civile non è un esercito. Quello di cui avremmo bisogno sarebbe un vero esercito europeo, non un’organizzazione di ascari al servizio della NATO. La leva obbligatoria non è più concepibile:il processo di destrutturazione della società civile italiana è andato ormai troppo oltre.

Nel suo volume la dicotomia guerra/pace appare come un rapporto tutt’altro che statico: dopo l’anno Mille, ad esempio, la civiltà europea e cristiana sentì un profondo bisogno di pace, che si espresse , ad esempio, con i movimenti della [i]Pax Dei[/i] e della [i]Tregua Dei[/i]. Quest’ultimo giunse a proibire qualunque atto di guerra privata per diversi giorni della settimana. Nella sua prefazione, lei afferma che ai nostri giorni il movimento pacifista si è quasi dissolto. E’ un fenomeno transitorio, o il segno di un più profondo mutamento antropologico?

Siamo nella fase delle operazioni di polizia internazionali, funzionali al governo delle lobbies multinazionali che sta sempre più governando il mondo intero, con alcune zone ancora poco chiare. Per esempio, dove va la Cina? Si adatterà a questo tipo di gioco,e in che modo?

Quest’anno ricorre l’anniversario – un secolo esatto – dallo scoppio della Grande Guerra. Quanto vi era di consapevole nei governanti dell’epoca, nella decisione di mandare al massacro i proletari d’europa l’un contro l’altro?

I governanti dell’epoca ragionavano secondo altri parametri. Il punto non era massacrare i proletari, ma perseguire una politica di potenza: la Russia voleva raggiungere il Mediterraneo, la Francia vendicarsi dei tedeschi e recuperare le aree ferrifere e carbonifere dell’area renano-mosellana. Certo,al guerra era un diversivo rispetto all’affrontare la questione sociale.

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La sinistra italiana, incarnata allora nel Partito Socialista, fu l’unica in Europa a non chinare il capo alle intimidazioni del nazionalismo, diversamente da quanto fecero i socialisti francesi, che votarono i crediti di guerra dopo l’assassinio del loro dirigente Jean Jaurés. Non fu a suo parere uno dei momenti più alti della storia del movimento operaio italiano?

Sì, e anche del mondo cattolico che in genere era nemico del conflitto. Ma c’erano ormai larghe aree d’inquinamento nazionalista, tra i socialisti e tra i cattolici. Quanto all’interventismo rivoluzionario, che nasceva su altre basi, alla prova si rivelò un cavallo di Troia del nazionalismo.

Spesso nelle sue pagine ricorre il tema della guerra come “azione ludica, sportiva, in quanto libero e giovanile esercizio”. Questa attitudine non potrebbe essere una delle tante, possibili chiavi di lettura della Resistenza al nazifascismo? Non vi era in quei ragazzi partigiani anche un’atteggiamento di sfrontatezza e di esuberanza? Penso ad esempio a quei partigiani che sottrassero un treno alla milizia di Hitler nella stazione di Firenze, sotto i loro occhi attoniti, o ai partigiani piemontesi, che, presa la città di Alba, sfoggiavano uniformi multicolori ed esotiche.

È normale che nelle guerre “non-istituzionali” emergano atteggiamenti di sfida e anche di “festa”. Fa parte della logica e dell’estetica delle guerre per bande.

A suo avviso il “revisionismo” o i “revisionismi” hanno vinto la loro personale battaglia? E se così è, non hanno ottenuto purtroppo quel che si prefiggevano, ovvero ridurre oppressi e oppressori sullo stesso piano, una “zona grigia” dove non vi sono slanci, quasi a suggerire che l’impegno a cambiare lo status quo è fondamentalmente inutile?

I “revisionisti” non esistono. Esistono da una parte dei ricercatori seri, qualunque siano le loro idee politiche, che rivendicano il loro sacrosanto diritto a far oggetto dei loro studi qualunque fatto, istituzione o struttura, e a correggere in tale àmbito qualunque possibile errore o menzogna; ed esistono fanatici intenti per partito aprioristicamente preso a minimizzare le responsabilità dei nazisti, se intendiamo parlare del “revisionismo” nei confronti della Shoah. Non è difficile distinguere i primi, che vanno rispettati e ascoltati, dai secondi, ai quali non va accordato nessun credito.

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